Quant’è vicina l’escalation tra Israele e Iran? | Rolling Stone Italia
War case scenario

Quant’è vicina l’escalation tra Israele e Iran?

Dopo l’attacco di sabato della Repubblica Islamica, in rappresaglia a quello al consolato di Damasco deciso dall’esercito di Netanyahu, «qualcosa succederà», come dice l’ambasciatore di Israele in Italia. Dobbiamo davvero prepararci a una guerra?

Quant’è vicina l’escalation tra Israele e Iran?

Il Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran Ebrahim Raisi

Foto: Contributor#072019/Getty Images

L’unica cosa certa, per ora, è che neanche Israele ha ancora deciso come – e soprattutto, se – reagire all’attacco dell’Iran, che sabato notte ha colpito con circa trecento tra missili e droni vari obiettivi di Israele, in rappresaglia a quello al consolato di Damasco deciso dall’esercito di Israele. Qualcosa succederà, l’ha detto stamattina tra gli altri l’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, spiegando che «non è una buona idea dire al nemico cosa faremo, ma finché non troveremo un modo di fermare l’Iran il rischio di escalation continuerà ad esistere». Ok, ma cosa? Il gabinetto di guerra del Paese, per ora, è diviso. E soprattutto: il rischio di un’escalation in una situazione già così delicata, con di mezzo Gaza e il resto, quant’è concreto?

Non troppo, sembra. Per esempio, Repubblica scrive che gli scenari sono vari, tutti nebulosi ma non per forza così allarmanti, se non altro perché difficilmente percorribili. L’ipotesi più probabile in termini di rappresaglia “forte” è quella di un attacco alle basi con cui l’Iran estrae l’uranio, che sono l’anima del suo programma di armamento atomico che Israele stesso e gli Stati Uniti, nemici giurati di Teheran, da anni dicono di voler disinnescare; ma ci sarebbe anche la possibilità di prendere di mira gli hezbollah in Libano (cioè i gruppi armati vicini all’Iran) o di colpire l’Iran sul suo territorio con raid strategici su punti chiave, magari dal valore simbolico. In ogni caso, la prima e la terza eventualità rappresenterebbero a tutti gli effetti una forma di escalation, perché l’attacco dell’Iran a Israele di sabato era a sua volta una risposta a un attacco precedente. Era abbastanza prevedibile, infatti, che avrebbe reagito: diverso, a questo punto, sarebbe perseverare a vicenda. In più, puntare sulla questione del nucleare può rappresentare un modo per tenersi vicina l’America su una specie di obiettivo comune, ma lo stesso Biden sta spingendo in tutti i modi affinché Israele non risponda.

Perché la verità è che nessuno, in questo momento, vuole la guerra. Non la vuole per primo l’Iran, che considerando «chiusa» la faccenda dopo la rappresaglia (per quanto, ovviamente, si riserva il diritto di rispondere ad altri attacchi) ha dato un messaggio chiaro. E non la vogliono gli Stati Uniti, che hanno già fatto sapere che non daranno sostegno a Israele in caso di eventuali risposte «non moderate», cioè che comportino altri contrattacchi da parte dell’Iran. Aumentare la tensione con Teheran non è nelle intenzioni di Biden. E non lo è neanche in quelle dell’Occidente tutto, compresi i Paesi del G7 e l’Italia, per i quali è sempre più difficile giustificare a livello internazionale alcune posizioni di Israele. In questo senso, una reazione eccessiva da parte di Netanyahu e l’eventuale sconfessione degli Stati Uniti – che possono permettersi il primo passo, al contrario dell’Europa – potrebbe essere una sorta di tana libera tutti sul tema. Si spiega così, forse, l’atteggiamento un po’, stranamente, misurato del premier israeliano, tutt’ora vago: qualche eccesso di troppo potrebbe costargli l’isolamento internazionale, con il fantasma, tra l’altro, delle prossime elezioni di casa, dove sulla scia di tutto ciò gli israeliani potrebbero bocciarlo al voto, promuovendo l’opposizione più pacifista.

Oltretutto, come sottolineano vari analisti da tutto il mondo, l’attacco dell’Iran ha avuto una specie di effetto benefico sull’immagine di un Israele che negli ultimi mesi, soprattutto tra i Paesi vicini, è diventato molto impopolare, alimentando una sorta di moto di solidarietà da parte di quelle nazioni di stampo arabo con cui i rapporti negli ultimi anni sono stati tutt’altro che pessimi, ma che dopo Gaza si erano incrinati. La richiesta di Netanyahu all’Onu di condannare l’attacco dell’Iran per certi versi s’inerisce in questa prospettiva di riabilitare il suo Paese davanti alla comunità internazionale. Chiaramente non è scontato che non reagisca all’attacco, anzi. Banalmente perché significherebbe considerare legittimi gli attacchi dell’Iran – come se, cioè, Israele un po’ se la fosse cercata. Una posizione del genere in sé, nel Paese, non è assurda, ma lo è per la linea del governo Netanyahu. Per cui, ecco, non è scontato non reagisca, ma secondo molti non gli converrebbe. Anche la risposta dell’Iran, che ha sancito un sostanziale pareggio, fa pensare allo stesso. Cioè che più che un gancio per una possibile guerra, il raid di sabato è stato soprattutto una mossa diplomatica per ricordare ai Paesi della zona e all’Occidente che Teheran c’è, va tenuta in considerazione e in caso di altri attacchi non resterà a guardare; ma anche che, appunto, non è il momento per un grande conflitto armato. E chissà che la diplomazia non possa essere una soluzione anche per Israele.

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