Puigdemont non è Mandela, ma un Bossi postmoderno | Rolling Stone Italia
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Puigdemont non è Mandela, ma un Bossi postmoderno

L'ex presidente catalano, noto per aver lottato per l'indipendenza della regione dalla Spagna nel 2017, è stato di recente arrestato (e poi scarcerato) in Sardegna. Come la sinistra italiana abbia potuto impazzire per lui è un vero mistero

Puigdemont non è Mandela, ma un Bossi postmoderno

David Ramos/Getty Images

Devo dire che non riesco proprio a capacitarmi dell’abbaglio che una parte della sinistra italiana ha preso per Carles Puigdemont, arrestato recentemente in Sardegna e rimesso in libertà dalla Corte d’Appello di Sassari meno di 24 ore dopo. Chiariamoci immediatamente: chi scrive non si augura che l’ex presidente catalano passi anni in galera ed è fermamente contrario alla delega ai tribunali della complessa e annosa crisi catalana. Il conflitto tra Madrid e Barcellona dev’essere risolto con la politica – come sta tentando di fare il governo spagnolo di coalizione guidato da Pedro Sánchez – e non con il codice penale e le azioni della magistratura. 

Detto questo, stupisce come certa sinistra abbia sposato la causa di un uomo politico che rappresenta tutt’altro che le idee della sinistra democratica (e anche di quella rivoluzionaria, se esistesse ancora). E sorprende – se qualcosa al giorno d’oggi può ancora sorprendere – visto che di Catalogna, bene o male, se ne è parlato parecchio negli ultimi tempi e si dovrebbe avere una minima idea del who is who al di sotto dei Pirenei.

Riassumendo e per essere chiari: Puigdemont non è Mandela, il suo partito (Junts per Catalunya) non è di sinistra e la Catalogna non è la Palestina. Se proprio dovessimo cercare dei paragoni e delle definizioni, il leader indipendentista catalano, fuggito in Belgio dopo la fallita dichiarazione unilaterale di indipendenza dell’ottobre 2017, è piuttosto una specie di Bossi post-moderno; Junts per Catalunya (JxCAT) è un’accozzaglia nazionalpopulista con molte analogie con la nuova ultradestra europea; e la Catalogna non è un popolo oppresso, ma un esempio di quella che Gianfranco Viesti ha chiamato “la secessione dei ricchi” (il suo Pil vale il 20% di quello spagnolo). 

Mi si dirà che questa è un’opinione personale. Andiamo, dunque, ai fatti. Il partito in cui ha militato Puigdemont tutta la vita è Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), una formazione conservatrice neoliberale che ha governato per anni la regione anche grazie ad un’estesa rete clientelare. Un mix tra la DC e Forza Italia, per intendersi. Con CDC, Puigdemont è stato eletto sindaco di Girona nel 2011 e all’inizio del 2016, all’ultimo e quasi per caso, si è convertito in presidente della Generalitat catalana: le politiche approvate quando era sindaco e come presidente della regione sono state di stampo chiaramente neoliberale, tra cui i durissimi tagli alla sanità e alla scuola, oltre alle privatizzazioni. 

Le cose sono anche peggiorate dopo il terremoto dell’autunno del 2017 con la formazione di Junts per Catalunya (JxCAT), forza politica erede di CDC, di cui Puigdemont è leader indiscusso. In JxCAT sono confluiti infatti anche settori radicalizzati della società per il processo indipendentista: è un mix di difficile definizione, insomma, che al suo interno ha dirigenti o candidati chiaramente di estrema destra che hanno lodato Trump, utilizzano l’hate speech contro avversari politici e spiattellano senza remore dichiarazioni suprematiste e xenofobe nei confronti degli spagnoli o dei catalani non indipendentisti (che tra l’altro sono più della metà della popolazione). E, si badi bene, non sono casi isolati. L’ex presidente Quim Torra, succeduto a Puigdemont e a lui strettamente legato, è stato accusato, a ragione, di nazionalismo identitario ed etnicista, mentre l’attuale presidentessa del Parlamento catalano, Laura Borràs, è incorsa in più occasioni in dichiarazioni ispanofobiche.

Al di là di alcuni abbagli, poi, Puigdemont è un paria a livello internazionale. A Bruxelles, insieme agli altri due eurodeputati del suo partito, siede tra i non iscritti: espulsi dai liberali dell’ALDE, hanno bussato a tutte le porte, ma nessuno gli ha aperto. Per di più, le uniche amicizie che sembra avere sono quelle del N-VA, il partito nazionalista fiammingo alleato di Giorgia Meloni, che lo ha accolto, ospitato e finanziato nei suoi primi tempi in Belgio. Chi è stato poi il primo politico che ha visitato Puigdemont quando lo arrestarono in Germania nella primavera del 2018?  Bernd Lücke, co-fondatore di Alternative für Deutschland. Con chi si è scattato sorridente una fotografia nell’Europarlamento nel gennaio 2020 in una delle prime sessioni a cui ha potuto assistere? Nigel Farage, il leader del Brexit Party, sul punto di abbandanare la tanto odiata Unione Europea. 

Da quando è dovuto fuggire all’estero, per di più, Puigdemont ha avuto una più o meno marcata deriva euroscettica. Prima del 2017, l’UE era stata dipinta come colei che – si diceva – avrebbe riconosciuto immediatamente l’indipendenza catalana e liberato un popolo che lottava per una causa giusta. Come si sa, e come chiunque avesse una minima cognizione di come funziona la diplomazia europea e internazionale sapeva, così non è stato. Per di più, già prima del referendum di autodeterminazione, considerato illegale dalla Corte Costituzionale spagnola, l’entourage di Puigdemont ha cercato appoggi russi che si sono mantenuti – e possibilmente rafforzati – negli anni successivi.

Un esteso reportage del New York Times ha individuato soprattutto in Josep Alay, stretto collaboratore di Puigdemont, e in Gonzalo Boye, l’avvocato dal passato torbido dell’ex presidente, le figure chiave di questa operazione. Lo scorso 15 settembre, non a caso, il Parlamento europeo ha richiesto di indagare in profondità le relazioni tra il governo russo e l’indipendentismo catalano, utilizzato possibilmente da Putin per interferire nell’UE. Per di più, una recente indagine di Scotland Yard ha vincolato all’indipendentismo catalano Sergei Fedotov, agente dei servizi segreti russi accusato del tentativo di omicidio di Sergei Skripal.

Ci sarà ancora chi dirà che sono malizioso. Aggiungo allora altri tre elementi. Nel settembre del 2017, il Parlamento catalano, all’epoca del governo Puigdemont, approvò le cosiddette leggi di transizione giuridica che avrebbero dovuto permettere la transizione legale alla nuova Repubblica catalana dopo la dichiarazione di indipendenza. Tali leggi prevedevano che nel nuovo stato il potere giudiziario dipendesse dall’esecutivo: nemmeno in Ungheria e Polonia si è arrivati a tanto (anche se ci manca poco). Le leggi in questione, ovviamente, non sono mai entrate in vigore, ma danno un’idea della concezione della democrazia del personaggio e del suo partito.

Secondo elemento: nel 2018, già in Belgio, Puigdemont ha poi fondato un fantomatico Consiglio per la Repubblica, un’istituzione privata che dovrebbe rappresentare il governo e il parlamento catalano “in esilio” opponendosi al commissariamento della regione avvenuto nell’ottobre del 2017. Il Consiglio ancora esiste, ma è stato un flop. Ciò che mi interessa sottolineare però sono i suoi statuti interni: il consiglio può essere presieduto solo da Puigdemont, senza elezioni né votazioni, in modo praticamente vitalizio, e gli altri membri li può scegliere solo Puigdemont stesso, quasi si trattasse di una sorta di monarchia dell’ancien régime.

Terzo ed ultimo elemento: JxCAT è la forza politica – attualmente membro di minoranza nel governo regionale catalano – che, insieme alla destra spagnola, più si sta spendendo per far naufragare il tavolo di dialogo che si è riusciti a mettere in piedi negli ultimi tempi, oltre a diferendere ancora la secessione unilaterale, opzione appoggiata da meno del 20% della popolazione catalana, secondo recenti sondaggi. Ovviamente si può criticare o essere scettici riguardo ai negoziati in corso: ciò non toglie che qualunque buon democratico dovrebbe non solo essere felice del fatto che, dopo un decennio di tensioni e silenzi, si cerchi di risolvere politicamente il conflitto, ma dovrebbe spendersi perché ciò avvenga, senza per questo abbandonare i propri ideali. 

Per farla breve, come può una persona di sinistra, che considera come propri ideali la democrazia, la giustizia sociale, l’uguaglianza e la fraternità, sposare la causa ed elevare quasi a novello Mandela un uomo e un partito che vogliono mandare a ramengo qualunque tipo di dialogo per risolvere la questione catalana, difendono la secessione unilaterale della regione più ricca della Spagna quando, tra l’altro, non hanno nemmeno lontamente la maggioranza sociale, cercano appoggi in Russia nello stile di Savoini e Salvini, hanno buone relazioni con gli alleati in Europa di Meloni, applicano politiche di stampo neoliberista, sognano una repubblica dove la separazione dei poteri non esiste e fondano un’istituzione senza la minima democrazia interna, non me lo riesco proprio a spiegare. Sarà il segno dei tempi, probabilmente. O della difficoltà per la sinistra di ritrovare se stessa.