Politica e canzoni pop, storia di un'appropriazione indebita | Rolling Stone Italia
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Politica e canzoni pop, storia di un’appropriazione indebita

Da Craxi con De Gregori alla passione di Salvini per De André o Rino Gaetano passando per le velleità cantautorali di Berlusconi

Politica e canzoni pop, storia di un’appropriazione indebita

Foto Cavicchi via Corriere.

Mentre scrivo la scempiaggine del giorno del ministro Matteo Salvini è quella dell’uso improprio in Piazza del Popolo a Roma del brano di Rino Gaetano Ma il Cielo è Sempre Più Blu. Abbiamo letto tutti il commento di Anna Gaetano, sorella del cantautore, che si dice stufa che le sue canzoni siano usate dalla politica. Abbiamo tentato tutti di rispondere alla domanda del nipote Alessandro quando si chiede: “Se Rino non ha colori politici, perché devono farsi forza usando lui e la sua musica?” e quando leggerete questo articolo le ipotesi avranno raggiunto l’iperspazio della supercazzola – detta alla Tognazzi. C’è però un aspetto meno ovvio ma interessante, che ci dà spunto per una riflessione (credo) non banale e più ampia della sola bontà di Gaetano e della malvagità di Salvini.

Partiamo da un presupposto: a nessuno di noi piacciono le cavolate. Ci piace talmente poco sentircele dire che c’è proprio un’intera morale intorno all’idea che dire le bugie sia male. Esistono infrazioni connesse alla veridicità delle nostre affermazioni e, andando proprio sul banale, chiunque venga ritenuto un bugiardo avrà una vita sociale, lavorativa e relazionale assai complicata: la gente penserà sempre che racconti frottole che non è cosa da poco. Questa regola si applica senza sconti bene o male in tutti i settori della vita reale eccetto un paio: le arti e la politica.

Mentre nelle arti la buggera viene chiamata creatività, nella politica viene chiamata promessa. Prendiamo il Giardino delle Delizie di Bosch. Al primo sguardo si scorgono un maiale vestito da suora, due uomini in una bolla d’aria, un uccello con corpo umano blu e piedi ad anfora, una sorta di sirena girata verso una mezza formica mezza pesce, un coltello con le orecchie e così via. Nessuno si è mai messo a sindacare con Hieronymus che un paesaggio simile sia assai improbabile in natura. Altresì, quando Battiato canta “Gesuiti euclidei e vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming” a nessuno è mai venuto in mente di commentare che i bonzi non godevano di una buona fama dall’Imperatore e quindi è assai improbabile che un simile escamotage avesse successo. Si accetta che sia una creazione artistica, su base di un tacito accordo tra autore e pubblico che dice: “Ciò che creo non è vero ma assume bellezza proprio nel discostarsi dal reale”. Se il Giardino fosse stato un frutteto non avrebbe incuriosito a nessuno e se i gesuiti euclidei non si fossero vestiti da bonzi nell’immaginario collettivo non sarebbero entrati da nessuna parte. Lo stesso accade nella letteratura, nel cinema o nel teatro: l’invenzione non ci dispiace, anzi spesso è ciò che più ci entusiasma e che quindi pretendiamo.

Esattamente come accade in politica: è stata (anche) l’impossibilita strutturale e geotecnica della realizzazione di un ponte sullo stretto di Messina che ha spinto l’elettorato a votare Berlusconi, mentre se avesse promesso di finire i lavori sulla Salerno-Reggio dopo trent’anni dall’inizio non avrebbe funzionato altrettanto bene. Così come ora sono le idee più irreali a spopolare: non avere un solo immigrato in giro per le città o avere uno stipendio senza fare niente; se avessero proposto il servizio civile obbligatorio non li avrebbe votati nessuno.

Ma cosa succede quando questi mondi si incrociano? Il supposto supporto artistico contribuisce a sublimare l’ideale politico o l’unione di due bugiardi manifesti rende solo la baggianata più palese? Dipende. La questione è più sottile di quanto non sembri. Un tempo si volava alti. Non esisteva il moderno concetto di “pop” della politica. Era tutto un Va, Pensiero in coro dal Nabucco e via giù a cantare tra i vari Bossi e Salvini, Maroni e Calderoli, con la mano sul cuore e stonati come una campana. Tanto Giuseppe Verdi non si sarebbe certo lamentato e l’elettore medio sarebbe magari riuscito a crederli persino persone acculturate (che di per sé è già una gran bella bugia). Oppure si commissionava il lavoro a un qualche direttore d’orchestra d’indubbia fama come Renato Serio che, nel 1993, scrisse l’inno di Forza Italia con testo di suo pugno di Berlusconi. Si viaggiava comunque a scompartimenti stagni: la politica restava un qualcosa di sofisticato, di astruso, persino di aulico, mentre l’inno della Roma poteva pure scriverlo Antonello Venditti. Ai comizi di ambe le parti giravano playlist da grammofono, dove il pezzo più recente era del 1945. La pertinenza però se non altro era indubbia: L’Internazionale non sarebbe mai partita a un convegno del MSI e così come La Leggenda del Piave alla festa de L’Unità di Pinerolo.



Il primo che possa ricordare a rompere le regole in una direzione più popolana fu Craxi nel 1981, con Viva l’Italia di Francesco De Gregori, un paio d’anni più vecchia. E qui cominciano i dilemmi. Infatti non è mai stato chiaro se la scelta ricadde su quel pezzo per un eccesso di onestà intellettuale di Bettino o consigliato (male) da qualche pubblicitario già proiettato alla “Milano da bere” a venire. Infatti nei suoi versi De Gregori cantava: “E’ solo il capobanda, ma sembra un faraone, si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone”. Analogo cortocircuito si replicò con Jovanotti che, nel 2008, si vide costretto a spiegare l’ovvio, ovvero che Veltroni sbagliò a usare la sua Mi Fido di Te di tre anni prima perché: “Non poteva essere usata per una campagna elettorale, quella canzone parla di sconfitte”. Infatti la sinistra, tra un “Cosa sei disposto a perdere” e “Lupi in agguato” ne uscì battuto.

Andò meglio nel 1996, con La Canzone Popolare di Fossati del 1992, colonna sonora della vittoria dell’Ulivo con un testo compatibile alle battagliere promesse del neonato partito di un ancora passionale Prodi. Convinto sostenitore del filone pop-politico, Pier Luigi Bersani nel 2013 lanciò la campagna elettorale con un tweet dal taglio post-adolescenziale in cui si palesò acceso fan di Gianna Nannini e intenzionato a usare la sua Inno col PD. Il video che però ne seguì fu piuttosto straniante – per non dire sottilmente queer: la canzone sostanzialmente d’amore della Nannini fa da sfondo alle immagini di partito e del segretario, dalle manifestazione all’incontro con Hollande. Così, tra “occhi chiusi”, “sorsi d’acqua tra le dita”, “venti che ti portano lontano da me”, l’inventiva della Nannini vinse un disco di platino e alle elezioni non vinse nessuno (il centrodestra superò il centrosinistra dello 0,35%). Ma già nel 2009 Bersani aveva provato una (quanto meno) bislacca abilità nell’associare le canzoni di successo alla storia d’amore col partito. Per la prima apparizione pubblica ebbe la geniale idea di usare Un Senso di Vasco, causando inevitabilmente vagonate di ilarità tra gli elettori – senza contare Maurizio Crozza e persino la CNN. Ma del resto, se come slogan usi un testo che ha tra i versi “Questa storia un senso non ce l’ha”, te lo devi anche aspettare.



Ora invece come va? Di sicuro non meglio. Se infatti eliminiamo gli esterofili come Renzi, che fece sua Because The Night di Patti Smith e Rutelli che si affidò agli U2, e se eliminiamo il conclamato sodalizio tra Vasco e i radicali di Pannella (ai quali ha concesso direi con attinenza l’utilizzo, tra le tante, di Vivere, Eh Già… e Senza Parole), gli esempi eclatanti del presente che ci ospita sono due. Il primo, nel 2014, al raduno per i 5 Stelle Fedez compone Non Sono Partito (se fisicamente o di testa non c’è ancora dato sapere). Presentando la canzone, Grillo sul blog scrive: “Ringrazio Fedez che ci ha dedicato una canzone per sostenere l’iniziativa mettendoci la faccia e dimostrando che le nuove generazioni hanno coraggio e voglia di esprimere un pensiero nuovo”. C’è un verso, nella pletora di soliti luoghi comuni che uno come Fedez è abituato a rappare a mitraglia che dice “Dalla marcia su Roma fino al marcio su Roma” che oggi ci fa chiedere se l’allora venticinquenne milanese avrebbe mai pensato a un governo Giallo/Verde che avrebbe rievocato l’una e rinverdito l’altro.

Il secondo è della primavera scorsa. “C’è un cantante a cui è legato?”, domandava durante il Festival sanremese una giornalista, senza staccare gli occhi dall’uomo davanti a lei. “Ce ne sono tanti ma le dico De André perché è quello che più mi rappresenta”. A parlare era ancora una volta Salvini. Uno che di Faber non ha capito nulla ma da allora continua a nominarlo a minchia come gran parte della destra che in questo genere di revisioni ci sguazza da sempre (La Russa, per dire, colmata l’apoteosi del paradosso, citò Il Pescatore e Il Gorilla, come esempio delle contraddizioni della sinistra in Italia sulla giustizia e sulla magistratura). Così, sembra che per un soffio a Roma non sia finita pure Via del Campo del Faber e la motivazione è forse ancora peggio del rischio scampato: ad usarla prima di Salvini sono stati i neo-fascisti di Casa Pound durante un loro incontro e, si sa, tra amici chi prima arriva meglio alloggia. Alla faccia del cielo sempre più blu.