Più che parlare di "fase 2", dobbiamo accettare che la nostra vita è cambiata | Rolling Stone Italia
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Più che parlare di “fase 2”, dobbiamo accettare che la nostra vita è cambiata

Oltre le vaghezze di Conte, la speranza di una vita che si avvicini alla normalità nei prossimi mesi – e probabilmente ben oltre – è svanita

Più che parlare di “fase 2”, dobbiamo accettare che la nostra vita è cambiata

PAU BARRENA/AFP via Getty Images

Parlare di “fase 2” è stato sbagliato. Sbagliato a partire dal punto di vista semantico, innanzitutto. Perché l’espressione non poteva che evocare un cambio di passo, una fase di rottura rispetto al passato che crea un grande pathos in chi ne ha sentito parlare. In previsione della tanto attesa conferenza stampa di Conte ieri sera, i cittadini attendevano l’annuncio di una liberazione, almeno parziale, dalla guerra al coronavirus. Ma le aspettative create sono state in gran parte deluse, tra aperture sulle pizze d’asporto, rassicurazioni poco credibili, appelli alla responsabilità collettiva che hanno scatenato più ironia che commozione.

Parlare di “fase” due è stato sbagliato, in secondo luogo, perché quell’euforia generata nel pubblico non teneva conto della povertà progettuale della classe dirigente, dei miseri progressi compiuti nella gestione sanitaria e logistica della crisi. Col risultato che l’ultimo discorso del presidente del Consiglio, oltre a risultare carente sotto il profilo informativo, ha finito con lo smorzare qualunque entusiasmo anche dei pochi che speravano, tra le poche restrizioni alleviate, di intuire un piano generale, una visione di fondo.

Ma ciò che forse andava intuito, dalla vuotezza delle parole di Conte, era qualcosa di più profondo e doloroso, che andava oltre i limiti della nostra provinciale politica, vale a dire il fatto che sì, la curva dei contagi si sta sgonfiando, ma la speranza di una vita che si avvicini alla normalità nei prossimi mesi – e probabilmente ben oltre – è svanita, evaporata. E non soltanto per gli italiani.

Leggete quello che ha scritto Bill Gates sul suo sito, qualche giorno fa: “Molti sperano che tra qualche settimana le cose torneranno a com’erano a dicembre. Purtroppo non sarà così”. Gates è convinto che, prima o poi, l’umanità sconfiggerà il COVID-19. Ma quel poi – “soltanto quando la maggioranza di persone sarà vaccinata”, scrive Gates – potrebbe rappresentare uno sconvolgimento fortissimo per i piani di miliardi di persone. La speranza del fondatore di Microsoft è che la produzione del vaccino inizi entro, e non prima, “la seconda metà del 2021”. “Fino ad allora”, spiega senza giri di parole “la vita non tornerà alla normalità”. E trovare un vaccino è soltanto una speranza, appunto.

Le “direttive” sulla fase due in Italia restano lacunose su una miriade di questioni, dal tracciamento dei positivi, alla scuola, passando per l’app Immuni. Forse manca davvero un piano complessivo. Ma se pensate che le nostri restrizioni siano pesanti – e in molti casi certamente lo sono, e quel che è peggio sembrano incomprensibili e crudeli – andatevi a leggere come si è tornati alla “normalità” in Cina, a Wuhan, nella città dove tutto è iniziato, ben tre mesi dopo il picco dei contagi, e dopo il lockdown più duro della Terra. “Sebbene i cittadini possano tornare a vivere”, si legge in un reportage di Bloomberg “non è chiaro, dopo quanto hanno patito, se lo vogliono davvero”. 

I centri commerciali e le metropolitane in tutta la provincia di Hubei sono aperti, ma restano in gran parte vuoti; la gente ordina tutto online e si muove con l’automobile, ingigantendo il potere di Alibaba, colosso dell’e-commerce, e facendo dannare gli ambientalisti. Lo stesso vale per i ristoranti; le persone ordinano da casa. Le feste tra amici sono ancora vietate, e prima di entrare in un supermercato o in una metro ti controllano la temperatura: se è troppo alta ti affibbiano un foglietto e te ne devi stare a casa. “Anche gli ascensori sono un artefatto dei ‘tempi di prima’. Ora tutti scelgono di salire le scale, mantenendo le distanze dagli altri”.

Anthony Fauci, il virologo della task force anti coronavirus della Casa Bianca, ha disegnato su Snapchat uno scenario ottimistico in ci si cerca di immaginare il ritorno dello sport: stadi senza spettatori per tutto il resto dell’anno e intere squadre di giocatori professionisti costretti alla quarantena negli hotel, sottoposti a tamponi tutte le settimane. Mentre c’è il presidente della Lazio che sbraita in queste ore di far ricominciare la Serie A, la Super League cinese sta annunciando timidamente una nuova ipotesi di riapertura a fine giugno. Ma è impensabile paragonare l’Italia del 4 maggio alla Wuhan post-lockdown. I cinesi hanno visto i loro contagi azzerarsi già un mese e mezzo fa, e hanno aperto lasciando restrizioni draconiane su una vasta gamma di attività. L’Italia, ancora ieri, registrava migliaia di nuovi contagi e centinaia di morti.

In gioco ci sono poi i ristoranti, i bar e i luoghi dello spettacolo. Chiunque abbia avuto a che fare con questo mondo sa bene che esso è legato in maniera indissolubile all’espressione “aggregazione sociale”: compare in ogni comunicato, bando o norma; la associamo nelle nostre teste a questi spazi, il cui intero business model, il cui intero senso dell’esistenza è infilare quante più persone possibile in uno spazio relativamente ristretto in un singola notte. Potranno, soprattutto i locali a conduzione familiare, che operano su margini estremamente ridotti, sopravvivere in una società sanificata dove il nemico principale è proprio il concetto di aggregazione, con la capienza di questi locali sarà dimezzata per legge? Una società dove, se anche il governo dovesse chiudere un occhio, dopo tutto quanto abbiamo sentito sul virus in questi mesi sceglieremo di non mescolarci ugualmente con la massa, preferendo piuttosto il take away o lo streaming?

Simili sono le prospettive per il trasporto aereo. Un flash dal futuro ci arriva dal Financial Times, da cui apprendiamo che Norwegian Airlines, sull’orlo della bancarotta, si limiterà a pochi voli nazionali per tutto il 2020, e tornerà a volare all’estero solo nella primavera del 2021, e resterà con voli limitati fino a tutto il 2022. La faccenda riguarda anche noi italiani: potranno Ryanair o Easyjet, con metà dei seggiolini non disponibili causa distanziamento, sopravvivere senza chiedere l’elemosina agli Stati? E chi potrà permettersi gli inevitabili rincari? Probabilmente molti torneranno a fare i turisti come negli anni Cinquanta, con le regioni e le province a fare a gara per spartirsi quei pochi villeggianti rimasti.

Uno degli articoli più deprimenti di questi giorni, quello in cui il New York Times ha consultato 20 esperti mondiali per dipingere l’anno che verrà, ci consegna un quadro che non consente fraintendimenti: l’ipotesi di produrre un vaccino in diciotto mesi, quindi per la seconda metà del 2021, è ottimistica per usare un eufemismo. Si pensi che il vaccino contro la parotite, considerato il più rapido mai inventato, ha impiegato oltre quattro anni a passare dalla raccolta di campioni virali alla distribuzione su scala globale. E non possiamo non considerare la guerra dei brevetti che nascerà, le rivalità geopolitiche per la distribuzione, ulteriori verifiche per l’immunizzazione effettiva prima di poter tornare a spostarci come una volta. Le proteste contro Airbnb nei centri storici, i turisti ubriachi e le navi da crociera saranno un buffo ricordo per un bel po’. 

Questa situazione crea un curioso paradosso: se gli eredi del ‘68 sembrano essere i primi ad avere fiducia (a volte eccessiva) negli addetti ai lavori o presunti tali, e incarnano lo spirito di abnegazione borghese alle indicazioni di un premier enigmatico, cantano l’inno di Mameli fuori al balcone e leggono Michele Serra che invita i figli a rivedere le loro priorità, ci ritroviamo con Trump che da contaballe professionale qual è dipinge scenari irreali di liberazione ai suoi elettori, e propone iniezioni di disinfettante contro il Covid. Tutto questo mentre migliaia di persone con la bandiera confederata scendono in piazza senza mascherina per chiedere l’emancipazione dallo Stato, l’ex sindaco di New York Giuliani chiede perché non si fanno app per tracciare cancro e obesità, Bolsonaro festeggia da due settimane come un pazzo mentre i sindaci scavano fosse comuni nell’Amazzonia. Alla fine, la fantasia al potere l’hanno portata i nazional-populisti.

Ma il problema di fondo è che noi, presunti adulti nella stanza, sappiamo ancora poco di questo virus. Non sappiamo se davvero dobbiamo sperare nel vaccino, oppure in una imprevedibile e più bonaria mutazione del Covid, che lo trasformi in qualcosa con cui si può convivere, o se il caldo possa ucciderlo più facilmente (per ora pare di no). Vanno anche male i trattamenti sperimentali: quello col farmaco anti-malaria tanto amato dai sovranisti, l’idrossiclorochina, ci ha consegnato pazienti che stavano uguale o peggio di prima. Quel che è peggio, l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che non c’è alcuna prova che i guariti da Covid-19 abbiano sviluppato anticorpi per una seconda infezione. In altre parole, anche la narrativa distopica che si sta sviluppando in questi giorni – con schiere di i nuovi eletti, gli immunizzati, che impongono un apartheid civile sulle fasce a rischio – è quantomeno troppo in là con la fantasia.

In fondo, sembra che il governo non voglia dire tutta la verità. Che una “fase due” ancora non può esistere, che al massimo possiamo parlare di una “fase uno punto due” – perché l’investimento di fiducia ricevuto dal popolo impaurito in queste settimane andava ricompensato in qualche modo, con un orizzonte utopico. È la schizofrenia della leadership politica durante una pandemia: da un lato chiamata a dare messaggi di rassicurazione, per non traumatizzare la gente; dall’altro, costretta a chiedere ulteriore disciplina, e quindi a contraddirsi. Ma noi che ci troviamo dall’altra parte dello schermo non siamo costretti a illuderci sul futuro, o peggio ancora continuare a pretendere che la politica ci illuda. È tempo di pretendere invece maggiore chiarezza, di essere trattati davvero da adulti, e di ricalibrare le nostre aspettative sulla realtà.

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