Capovilla: «Ho perso un amico» | Rolling Stone Italia
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Pierpaolo Capovilla: «Ho perso un amico»

Il frontman di One Dimensional Man ha vissuto la questione Rom – Salvini in prima persona e ce la racconta

Pierpaolo Capovilla: «Ho perso un amico»

Ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente che mi circonda.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente tutta insomma.

Ciò che sto per dire è interamente vero, con l’unica eccezione del nome del mio amico, l’amico che fu, e che per pietà cambierò con uno di fantasia. Lo chiamerò Alvise, un nome adespota, senza il santo in calendario, ma fra i più diffusi nella mia città, Venezia, la cui storia è piena zeppa di patrizi e dogi che portarono questo nome. Cambierò anche il nome della sua ragazza, che comunque non ricordo.

Venerdì sera, a Venezia, appunto.
Sto preparando una cenetta che mi auguro deliziosa, per Elisa, la mia compagna, e per me, che adoro cucinare. Ceneremo molto tardi, come sempre. Vorrei servirla in terrazzino, al fresco della brezza serale, che già soffia decisa.
Vado al supermercato più vicino, quello in Salizada San Lio, giusto prima che chiuda, sono ormai le 21 e 30, a fare un’ultima spesa. Mi mancano il parmigiano, un po’ di mentuccia, e una bottiglia di Salice Salentino, il mio rosso preferito. Ritorno verso casa in tutta fretta, ma mi fermo un attimo in un pub irlandese, in Calle del Mondo Novo, giusto per un aperitivo, solitario y final, ma sopratutto per vedere chi sta vincendo fra Svizzera e Serbia.
La Serbia mi affascina, da sempre. Il prossimo viaggio che faremo, io ed Elisa, sarà a Belgrado. Se proprio devo fare il tifo, questa sera, tifo Serbia.
Nel pub incontro Alvise, un vecchio amico che non vedo da anni.

È strano, ma lo avevo pensato qualche giorno fa, il buon Alvise. Sarà la solita sincronicità.
Sotto lo sguardo un po’ torvo e un po’ stupito dei tanti svizzeri che gridano nel pub, Alvise, che è lì con Nadia, la sua ragazza, la stessa di sempre, si mette a gridare anche lui: Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via!.
Scoppio a ridere. Il vecchio compagno non è cambiato!
Mi vengono in mente le interminabili discussioni alla Letizia, l’osteria che frequentavamo, dalle parti di Rialto, sull’Unione Sovietica, l’internazionalismo, Berlinguer e l’eurocomunismo. Tutto perduto, nella notte dei tempi, come un mito lontano.
Lo inseguo immediatamente. Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via! Scenetta divertente.
A quel punto un bel signore, di una certa età, si avvicina e si aggiunge sorridente al nostro coretto provocatorio. È serbo, questo signore così magro, il volto affilato, gli occhi azzurrissimi. Un bel tipo. Come Alvise anche lui è ubriaco. Ci faccio due chiacchiere. È proprio di Belgrado, ed è qui a Venezia per lavoro.

Da quanto non ci vediamo?
Alvise ci pensa qualche secondo.
Saranno tre, quattro anni!
Ma sei stato via?
No, affatto. Sempre qui in città.
È strano. Malgrado Venezia sia così piccolina, a volte ci si perde di vista. Entrambi abbiamo cambiato casa e sestiere negli ultimi anni; qui a Venezia funziona così, ognuno si vive il suo pezzetto di città, si rintana nel proprio angolino, il più lontano possibile dai turisti, anche se ormai sono dappertutto, anche nei luoghi più nascosti, un tempo ignorati dai “foresti”. Google Maps e Airbnb hanno trasformato Venezia in un percorso guidato e in un immenso albergo; i croceristi scendono dalle navi, dalla porta del vicino sbucano fuori messicani, una mattina alle sei e mezza due corpulente americane ti chiedono se tu sia certo che la casa in cui vivi non sia quella che hanno prenotato. Ho dovuto mettere un avviso sulla porta di casa: “This is not a B&B”.

Alvise, che fa il gondoliere, s’è comprato un bell’appartamento, spazioso e confortevole, in un palazzo antico, dalle parti di Campo Santo Stefano. Io invece sto in un modesto appartamentino, un bilocale al piano terra, esente acqua alta, come si dice da noi, vicino a San Lorenzo.
Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e io inevitabilmente gli chiedo se tifi ancora per il Livorno. L’ho conosciuto così, Alvise, parlando di calcio, e quella volta se ne uscì con questa passione ‘amaranto’. Mai mi sarei aspettato che un gondoliere veneziano potesse essere un tifoso, un tifoso accanito, del Livorno. Singolare.

Ti fai ancora le trasferte?
Alvise mi dice che… No, ormai il Livorno non gli interessa più. È retrocesso in C, mi spiega. S’è pure stufato del calcio in genere. Ora preferisce il rugby.

Io non sono un tifoso, ma il calcio mi piace. Lo sport più bello del mondo, altroché. Mi piace perché conservo in me il ricordo di quel grand’uomo di Bearzot e della sua nazionale, campionessa del mondo. Di Zoff, Scirea, di quell’opportunista di Paolo Rossi, e poi Conti, Cabrini, Tardelli. E poi Pertini. Quanto era bello, Pertini. Avevo quattordici anni, e a quel tempo il calcio mi piaceva eccome. Mi entusiasmava. I ragazzini amano il calcio.
Ad un certo punto Alvise mi chiede: ti piace il biliardo?
Resto sorpreso. Un’altra sincronicità.
Io adoro il biliardo. Non sono bravo, non sono mai stato bravo in alcuno sport né in alcun gioco che preveda specifiche abilità motorie, lo ammetto. Ma mi piace davvero, e proprio in questi giorni stavo pensando di andare a passare una serata in quella sala che c’è a Mogliano, proprio dirimpetto alla stanza prove dove suono con One Dimensional Man. Ci andrei anche da solo, giusto per allenarmi un po’, e per vedere se ancora riesco a mettere qualche biglia in buca.

Alvise mi dice di avere un tavolo a casa.
Hai un tavolo a casa?
Si! Vieni a fare un paio di partite!
Ci penso su.
Ci vengo eccome!

In un battibaleno decido di lasciar perdere la cenetta in terrazzino.
Chiamo Elisa per dirle che farò un po’ tardi, ma sta ancora lavorando, e non mi risponde.
In dieci minuti sono a casa di Alvise e Nadia.
Nadia prepara delle bruschette, Alvise una canna d’erba, di quella super buona. A me affidano il compito di scegliere ed aprire una bottiglia di vino bianco. Trovo un Malvasia del Carso, eccezionale.
Tutto è eccezionale questa sera!
E fra poco… Lo sarà ancor di più.
Ci fiondiamo al tavolo. È di tipo americano, con le buche molto più larghe di quelle a cui ero abituato, e penso: meglio così, la mia figuraccia sarà meno penosa.

Alvise mi confida d’averlo comprato non soltanto per la passione per il biliardo, ma per invitare gli amici a casa, che quando capiscono di poter giocare a gratis, non ci pensano su due volte. Esattamente quel che ho appena fatto io.
È soddisfatto, felice di compiacermi. E sono felice anch’io.

La prima partita, giochiamo a palla otto, la stravince Alvise. E ci credo. Però io non sono così male. Alvise osserva la mia postura, e mi dice: ma allora sai giocare!
Sono inorgoglito.
Nella seconda partita do il meglio di me, e con un po’ di fortuna passo in vantaggio. Complice una spaccata favorevole le biglie si distribuiscono propizie, scelgo le piene, e ne metto in buca tre di fila.
Poi Nadia ci chiama in cucina per le bruschette.
Nadia è una donna buona e gentile. Sembra un po’ svampita, come se vivesse in un mondo tutto suo, e mi sembra di riconoscere in lei quei classici aspetti di chi fa uso di psicofarmaci. Niente di strano, penso. Le benzodiazepine sono fra i farmaci più venduti al mondo. Quel che non mi piace di lei, è la sua arrendevolezza. Alvise la tratta in modo un po’ rude, un po’ padronale, patriarcale. Incomincia a non piacermi neanche lui.
A tavola beviamo e fumiamo ancora. Ormai sono alticcio pure io, mentre Alvise è decisamente su di giri. La cosa non mi preoccupa neanche un po’ perché è sempre stato così, il buon Alvise. Un vero alcolista, uno di quelli che ci danno dentro tutto il giorno.

Gli chiedo cosa ne pensa del nuovo governo.
“Na manega de stronsi”, mi dice in perfetto veneziano, non veneto o mestrino, ma veneziano DOC. “No cambia mai na sboraa”. Questa è una di quelle locuzioni vergognose che si usano a Venezia, la parola “sboraa” significa “sborrata”, e molti qui la usano in continuazione, intercalandola in ogni dove.
“Però Salvini no xe mae!”…
Perché, ti piace quel fascista?
“No xe fascista! È un p-r-a-g-m-a-t-i-c-o”.
Incomincia una discussione che avrei preferito non dover fare mai.

Ma insomma. Un ministro dell’Interno appena insediato che si scaglia come un cane rabbioso contro gli immigrati, contro gli oppositori politici, contro i Rom, ma fammi il piacere Alvise! Ma non hai capito di che pasta è fatto quell’individuo? Non lo vedi come parla, ogni santo giorno, come se fosse ancora in piena campagna elettorale. Io lo trovo indecente, altro che pragmatico. E poi scusa, che vuol dire pragmatico? Uno che vorrebbe che la gente si armasse per sparare ai ladri, come in America, santiddio, lo chiami pragmatico.

Siamo ubriachi, tutt’e due. In Vino Veritas.
Ma a questo punto scopro qualcosa che non avrei voluto scoprire.
Alvise odia gli zingari.
Li odia con rancore, con livore, con astio. Un risentimento profondo, come se avesse subito un torto grave.
Non lavorano, mi dice.
Trovami uno zingaro che abbia mai lavorato!
Non lavorano e rubano, rubano i bambini, ‘sti porsei!
Alvise… Ma che diavolo dici.

Non sono certo tutti uguali. Ce n’è che lavorano. Gli zingari sono degli amanuensi straordinari, e sono dei musicisti straordinari. Se non lavorano è perché la gente ha paura di loro, una paura ancestrale. Se vivi in un campo Rom, e non hai neanche l’acqua per lavarti, chi vuoi che ti dia un lavoro. È un cortocircuito, è evidente. Più ti spingono verso i margini, e più verrai emarginato. E poi, diciamocelo, che problema potranno mai rappresentare duecentomila zingari in un paese di sessanta milioni d’abitanti. Sai cos’è che ti fa incazzare? Il fatto che siano poveri, ma che ce la facciano ugualmente. In barba a tutti. Sono i più poveri di tutti. E proprio per questo stanno insieme, in piccole o grandi comunità, perché quando sei povero, anzi misero, se sei da solo crepi, se stai in una comunità sopravvivi. Che male c’è?

Ma ne hai mai conosciuto uno? Gli hai mai stretto la mano? Prova a stringere la mano ad uno zingaro. Prova a fargli un sorriso, a fargli capire che non gli sei nemico. Prova ad abbracciarlo! A me è successo, più di una volta. E ho visto negli occhi di quel mio fratello, come dire, … Amore. Un amore improvviso, repentino, e sorpreso. Sorpreso, si, anzi stupefatto.

Nessuno li avvicina, tutti gli stanno lontano almeno due metri, manco fossero bestie fuggite dallo zoo: se gli dai un sorriso, una moneta magari, ma non guardando dall’altra parte, guardandolo negli occhi, con un briciolo di cristiana compassione, scatta in loro subito un moto d’amore, una sorta di complicità umana, umanissima. Li trovo bellissimi.

Aò, gli faccio in romanesco, a Roma n’ho incontrati de spaventevoli, e ‘mo me so allontanato pur’io!
Te ne potrei raccontare un paio di interessanti. Una volta, a Roma, ero con Federico, che c’aveva un rolex esagerato e …

Ucciderli tutti, bisognerebbe, dice Alvise.
Ucciderli?
Tutti e duecentomila?
Si. Tutti.

A questo punto incomincio a incazzarmi. Mi prendo una pausa di riflessione.
Penso che Alvise non poteva sapere della mia passione per questa gente e per la loro cultura. L’avversione per gli zingari è ormai cosa comune, dev’esserci cascato anche lui. E poi è sbronzo. A volte da sbronzi si dicono stupidaggini gigantesche.

Lo guardo, Alvise, negli occhi.
Anche lui mi guarda, con aria di sfida.
Ma non eri un compagno, Alvise? Che ti succede?
Compagno? E che vuol dire compagno?
Vuol dire comunista, Alvise. E cos’altro, altrimenti?

I comunisti, Paolo, possono esistere solo in un paese comunista. Che senso ha oggi, in Italia, essere comunisti. È un controsenso.
Ma che diavolo dici! Essere comunista vuol dire stare dalla parte degli ultimi, o no? Tanto mi basta. Vuol dire credere nella grandezza del cuore umano, come direbbe Majakovskij, ma vuol dire anche combattere i nostri egoismi, quelli che ci portiamo appresso ogni giorno, per paura e per aridità, come diceva Pasolini. Insomma, io posso essere comunista anche qui in Italia, in questo momento storico. E infatti, lo sono. E lo eri anche tu.
Alvise è stordito ormai. Troppe birre a doppio malto al pub, troppo vino a casa, quella canna troppo forte, e per di più Capovilla e i suoi poeti e le sue interminabili citazioni. Io, di colpo, mi sento più sobrio che mai.

Alvise, amico mio. Sei cambiato, vedo.
Ma che t’hanno fatto gli zingari, per odiarli tanto.
“A mi? Gnente, diocan! Che i ghe prova!”

Ma se non t’hanno fatto niente, da dove ti viene tutto questo odio nei loro confronti? Perché ne parli come se… T’avessero ammazzato un parente. Non lavorano? E ci credo, nessuno offre loro un lavoro. Ma in realtà non è vero. Anche loro lavorano, fanno quel che possono. Io ne conosco uno, si chiama Vasco, è un mio caro amico, ed è un pittore straordinario.
Pittore! Un artista… Quello non è un lavoro, mi dice Alvise.

Vedi Alvise, gli zingari, come tu li chiami, non godono di “riconoscimento sociale”. È una definizione che si usa in sociologia. Un extracomunitario, socialmente, lo riconosciamo, è un immigrato. Lo zingaro invece, non è nessuno. Ma non è sempre stato così. Trent’anni fa non avevamo un rapporto così ostile con loro. Persino nella musica! Pensaci. Te le ricordi le canzoni? “Zingara”, era Bobby Solo. Bobby Solo! Vinse a San Remo! E va beh… Era il sessantanove, noi eravamo appena nati, ma la canzone ce la ricordiamo! E poi, negli anni ottanta, Umberto Tozzi! Si! Tozzi. Non te la ricordi quella canzone? Io la so quasi a memoria… “Zingaro, voglio vivere come te, andare dove mi pare, non come me…”. Umberto Tozzi! Non so perché, ma mi è sempre piaciuto. Che resti fra me e te. E che dire di quel capolavoro di Lolli, “Ho visto anche degli zingari felici”, te la ricordi? È bellissima, è commovente, è vera, è una canzone stupenda, dai…

Alvise mi guarda stupito, ma continua a subirmi. La canna mi ha reso loquace.
Io non ho cambiato idea. Non cambio le mie idee. Ho preso una decisione, tanti anni fa, ed è una decisione “politica”, che più “politica” non si può. Io sto dalla parte degli ultimi. E sto dalla parte dei Romanì. Si chiamano così, Alvise. Romanì, non zingari. Li abbiamo disumanizzati, per ridurli nella più cupa emarginazione. Dovremmo fare un bell’esame di coscienza, tutti quanti. Una democrazia la si riconosce quando rispetta le minoranze. E ci vuole rispetto per il popolo Romanì. Altroché! L’unico popolo al mondo a non aver mai mosso guerra a un altro popolo. Sempre scacciati via. Sempre esclusi e perseguitati, ecco perché sono diventati nomadi. Gli unici ad aver tentato una rivolta in un campo di sterminio, proprio ad Auschwitz, dove tennero sotto scacco le SS per mesi, e ne uccisero pure un po’. Poi furono tutti massacrati e bruciati, a migliaia. Ci vuole rispetto per questa gente, per Dio!

Alvise sembra non credere a ciò che sta ascoltando.
Sbarra gli occhi imputriditi di rabbia.
Mi fissa.
Attende qualche secondo, concentrato.
In un perfetto italiano questa volta, con calma, una calma terrificante, alzando la voce e scandendole bene, mi dice queste parole. E che dio mi perdoni.
“Se anche fosse una ragazzina quindicenne incinta. Se la trovassi a scassinare la mia porta. Le infilerei un coltello in pancia. E ucciderei il bambino, per primo”.

Sono pietrificato.

Nadia gli dice… Beh… Non ti sembra di esagerare un po’.
Cerco le forze. Dove sono, le mie forze?
Non so se sprofondare o se alzarmi di scatto e tirargli un cazzotto in faccia.
Cerco di rimanere calmo.
Mi metto una mano sul petto, e tiro un respiro profondo.
Mi sento desolato. Mortificato. Un soffio di morte, lo sento, nei polmoni.

Prova a ripetere ciò che hai detto, se ne hai il coraggio.
Alvise si alza, mi si avvicina flemmatico e porta il suo viso vicino al mio.
E le ripete.
Lentamente.
Uguali a prima.
Se anche fosse una ragazzina incinta…
Poi si allontana, con un ghigno ebbro e avvinto. Si avvia verso il salotto, e si siede. Si accende una sigaretta.

Guardo Nadia. La guardo negli occhi.
È dispiaciuta. È imbarazzata.
Non ci diciamo niente.
Restiamo in silenzio per un paio di minuti.
Decido di andarmene.
Il corridoio è buio.
Non ricordo dov’è l’uscita di casa.
Osservo Alvise per un ultimo istante, seduto su quel bel divano di pelle nera.
Ha l’aria smarrita.
Credo si senta colpevole di qualcosa.
Me ne vado Alvise. Giocheremo un’altra volta.
Alvise si alza, e mi accompagna alla porta.
È affranto, si vede.
“Ho soltanto espresso francamente il mio pensiero”.
Poi aggiunge, “mi dispiace”.
Lo guardo negli occhi, l’antico amico.
Il compagno.
Di bisbocce e sbronze, di sovietiche discussioni.

E mi viene in mente quella sera di tanti anni or sono, alla Letizia, quando due fasci di Forza Nuova, durante un dibattito di bestemmie, impaurirono allo sguardo furioso di Alvise, e se ne andarono alla chetichella, senza proferire una sillaba.
Ora Alvise non fa paura più a nessuno.
Il suo sguardo è rassegnato, si è chiuso in se stesso, in quell’odio primigenio, quella cosa abominevole che chiamiamo razzismo.
Con un po’ d’assurdo amore, gli rispondo.
Dispiace anche a me.
Non sai quanto.

Venerdì sera ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente.
Il popolo del Paese in cui vivo sta diventando un mostro.

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