Perché in Italia non si riesce ad avere una legge sul fine vita? | Rolling Stone Italia
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Perché in Italia non si riesce ad avere una legge sul fine vita?

Dopo la bocciatura della proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni in Veneto, la strada verso un decreto sul suicidio assistito si fa più tortuosa. Anche se il 70% degli italiani si dichiara favorevole

Perché in Italia non si riesce ad avere una legge sul fine vita?

Foto: Insung Yoon/Unsplash

C’eravamo quasi: anche stavolta mancava poco, neanche stavolta alla fine s’è fatto niente. E rieccoci al punto di partenza. Ieri, dopo una seduta durata più di sei ore, il consiglio regionale del Veneto ‒ presieduto da Roberto Ciambetti, quota Lega, e basato su una maggioranza in sostanza formata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, con il Partito Democratico come unica, consistente opposizione ‒ ha bocciato la proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni, Liberi subito, che stabiliva condizioni e paletti per il ricorso al suicidio assistito nella regione. La proposta partiva da una raccolta di settemila firme lunga e tortuosa, spinta da una campagna di sensibilizzazione con le storie di chi, in Veneto e non solo, chiedeva di poter ricorrere all’iniezione letale senza patemi.

Sono stati fatali i primi due articoli dei cinque che la componevano, i quali non hanno ottenuto la maggioranza assoluta. O meglio, è stato fatale un solo voto: ne sarebbero serviti 26, ma l’assemblea si è fermata a 25, con tre astenuti che, presentandosi comunque in aula, hanno alzato il quorum e reso la propria astensione equivalente a un voto contrario. Due appartengono alla Lega, uno al PD; segno di come il discorso sia più complesso di una divisione facile tra destra e sinistra, a cui far corrispondere rispettivamente conservatori e progressisti. Ora il progetto è rinviato in Commissione, dove non è detto che sarà sottoposto un nuovo esame ‒ e comunque, non in tempi brevi. Insomma, la bocciatura non è definitiva, ma è difficile che se ne riparlerà.

A proposito di fazioni, lo stesso Luca Zaia, presidente della regione e uomo forte della Lega, per quanto di una Lega in parte diversa da quella di Salvini, era a favore: «Il fine vita è già autorizzato da una sentenza della Corte Costituzionale. È da ipocriti non volerlo». Sorpresi? Non tanto. Il riferimento è a una sentenza della Corte Costituzionale del 2019, che ha ammesso la possibilità di ricorrere al suicidio assistito, depenalizzandolo, ma scaricando la responsabilità di stabilire come alle regioni. Il Parlamento, infatti, non è mai arrivato a un accordo, e non sembra poterci arrivare in tempi brevi. Il più è fatto, anzi no. Come ha ricostruito Il Post, si sono attivate dieci regioni su venti, in un modo o in un altro, su spinta dei cittadini o dei politici locali. L’obiettivo è riempire un vuoto legislativo, una zona grigia: a certe condizioni, dice la Corte, si può; prima però serve una legge, altrimenti s’incorre in ritardi, cortocircuiti istituzionali, guai burocratici e il resto di una corsa a ostacoli che ci si può già immaginare. Il Veneto è stata la prima regione ad avere effettivamente l’opportunità di stabilirla: abbiamo visto com’è finita.

Con Zaia, che ha lasciato libertà di voto ai suoi, c’era parte della Lega, mentre un’altra corrente ‒ quella legata ai movimenti «per la vita», molto forti all’interno della Lega ‒ si è schierata con Forza Italia e Fratelli d’Italia, in opposizione. Il risultato, al di là di una spaccatura a destra, è che neanche stavolta sono arrivati risultati incoraggianti per chi spera di avere una legge che regoli il fine vita e non costringa i malati a recarsi all’estero per l’iniezione letale, o semmai a intraprendere una lunga battaglia legale con lo Stato.

Il tema è: perché, se la Corte lo consente e addirittura, com’è successo in questi anni, sollecita una legge, i partiti fanno barricate? La questione è antica, e più che la politica in senso stretto riguarda il pensiero comune. La prima proposta di legge su quella che veniva chiamata in un modo solo, «eutanasia», risale al 1984, piena Prima Repubblica. La firma era del socialista Loris Fortuna, lo stesso della legge sul divorzio, altra eresia bella e buona per l’Italia degli anni Sessanta in cui fu presentata; non se ne parlò granché, nel dubbio. Per sollecitare l’opinione pubblica serviranno, vent’anni dopo, i radicali di Marco Pannella, che negli anni Zero porteranno alla ribalta i casi di Luca Coscioni e di Piergiorgio Welby. Welby in particolare, affetto da una forma grave di distrofia muscolare, nel 2006 chiese con una lettera all’allora Presidente della Repubblica, Napolitano, di intervenire. Lui si augurò un dibattito politico sul tema, e finalmente la gente comune cominciò a familiarizzare con il fine vita. Ma gli esiti in parlamento furono scoraggianti: se la destra, all’epoca di Berlusconi, era contraria per spirito reazionario e, viene da dire, poco liberale rispetto a quanto professato, in posizione favorevole c’erano solo partiti e partitini da piccole percentuali, radicali in primis. Cioè, dov’era la grande sinistra, quella che si chiama Democratici di Sinistra? In posizione «possibilista»: aspettiamo, vediamo come evolve, restiamo cauti, un passo alla volta.

Non vi stupirà sapere che quasi vent’anni dopo, di nuovo, non è cambiato granché. In mezzo ci sono stati altri casi mediatici eclatanti, parecchie azioni di disobbedienza civile (su tutte quelle di Marco Cappato), sparate varie, disegni di legge finiti nel cestino ancor prima di essere discussi, referendum naufragati e ritenuti inammissibili e, si direbbe quasi per sfinimento, messa alle strette, la sentenza della Corte Costituzionale, che di più non può fare. La destra, salvo qualche eccezione, è rimasta puramente ostile, reazionaria, con le orecchie tappate, tirando in ballo l’eugenetica e i nazisti; la sinistra, pur dandosi una scossa, si è mantenuto un po’ cauta. E il motivo, probabilmente, è comune: una certa mancanza di coraggio, trasversale, quando si tratta di rilanciare in termini di diritti civili, e soprattutto un retaggio forte legato alla Chiesa e al Vaticano, che ancora esercita un’influenza su questi argomenti, e che temendo di mettere in discussione sé stessa fa barricate su questi temi. Si veda, per esempio, il fuoco incrociato a cui è sottoposto Bergoglio, che pure è il Papa. Tradotto: tutti i grandi partiti italiani, in un modo o nell’altro, rispondo alla loro educazione cattolica.

Poi, certo, c’è da capire con precisione i casi in cui ricorrere all’eutanasia, i perché e i percome. Ma l’atteggiamento, a prescindere, è ostile e scollegato. Un sondaggio del 2021, infatti, ha accertato che il 70% degli italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia: tra questi, salvo ripensamenti, ci sarà sicuramente qualcuno che ha votato Meloni alle ultime elezioni, no? E quindi ecco che questa battaglia diventa una sorta di star gate che ci riporta fino agli anni Settanta: a quando, cioè, c’era una spaccatura netta tra ciò che la gente pensava, e ciò di cui aveva bisogno, e le priorità della politica, come successe con le leggi sul divorzio e sull’aborto, che il parlamento rimandò il più possibile nonostante il consenso riscosso fuori di lì. Servirono il genio di Pannella e tante iniziative popolari, figlie senz’altro della loro epoca, per smuovere le acque. Il primo non c’è più, ora a sta a noi vedere se siamo ancora gli stessi.

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