Perché il vaiolo delle scimmie rischia di stigmatizzare la comunità gay | Rolling Stone Italia
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Perché il vaiolo delle scimmie rischia di stigmatizzare la comunità gay

Parlare di 'malattia gay' è fuorviante e pericoloso: evitiamo di ricreare un clima da anni Ottanta

Perché il vaiolo delle scimmie rischia di stigmatizzare la comunità gay

Foto di Emmanuele Contini/NurPhoto via Getty Images

Sabato scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha fatto rientrare la diffusione del vaiolo delle scimmie nella definizione di “emergenza sanitaria internazionale”, il più alto livello di allerta. L’upgrade della malattia sulla scala di rischio sanitario è stata annunciata tra le iniziative adottate allo scopo di contenere l’epidemia, che ad oggi ha colpito quasi 17mila persone in 74 Paesi, secondo quanto rilevato dai Centri Usa per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC).

Il vaiolo delle scimmie, in inglese monkeypox, è una patologia infettiva causata da un Orthopoxvirus, un virus simile a quello che causa il vaiolo; si tratta, quindi, di una zoonosi virale (un virus trasmesso all’uomo dagli animali) con sintomi molto simili a quelli osservati in passato nei pazienti con vaiolo, ma clinicamente meno grave.

Come, purtroppo, accade di frequente quando ci si appresta a raccontare un nuovo fenomeno sanitario, la diffusione di informazioni parziali o tendenziose rischia di sfociare nell’ingiusta stigmatizzazione di alcune categorie: è ciò che è accaduto, ad esempio, nelle fasi iniziali della pandemia da coronavirus, quando si registrò un preoccupante aumento di episodi razzismo e xenofobia nei confronti di persone provenienti dalla Cina.

Nel caso del vaiolo delle scimmie, invece, i fraintendimenti si stanno traducendo in uno stigma che rischia di marginalizzare la comunità gay, ricreando un clima infame simile a quello che dominò gli anni Ottanta.

Il pregiudizio secondo cui il vaiolo delle scimmie si diffonda soprattutto tra persone omosessuali è da ricollegare alla cattiva interpretazione di un avviso pubblicato dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) lo scorso 25 maggio, dove veniva comunicato che «la maggior parte dei casi» era stata identificata in giovani uomini «che fanno sesso con altri uomini».

Queste affermazioni, se decontestualizzate, possono facilmente trasformarsi in un argomento fantoccio da utilizzare per diffondere un clima di intolleranza ingiusto e umiliante. È questa la strategia che, da qualche settimana, accomuna alcune testate di stampo conservatore interessate alla legittimazione di un certo tipo di narrazione. Riportiamo, a titolo d’esempio, un virgolettato estrapolato da un sito italiano particolarmente vicino alla galassia del cattolicesimo radicale (che scegliamo consapevolmente di non pubblicizzare, nella speranza di non concedere traffico a voci scollegate da qualsiasi senso di realtà): «Il pericolo di diffusione del virus è reale e, interessi e privilegi delle lobby Lgbt, non possono e non devono essere anteposti alla salute pubblica. L’Europa paga i vaccini per le conseguenze dei loro innaturali appetiti sessuali, le autorità sanitarie stravolgono i nomi delle malattie per ossequiarli, il tutto in un clima di censura grave, pericoloso e codardo».

Resoconti di questo tipo sono inaccettabili e devono essere smorzati sul nascere, prima che sia troppo tardi; i pregiudizi imperanti fino a quarant’anni fa, quando una rivista autorevole come The Lancet etichettava senza troppi problemi l’AIDS come Gay compromise sindrome, sono la dimostrazione compiuta di come sia semplice fabbricare artificialmente nuove categorie di oppressi: non dobbiamo ricadere nello stesso errore.

Joanathan Wolfe, giornalista e fact-checker del New York Times, ha recentemente messo in guardia l’opinione pubblica dai rischi associati alla propagazione di un certo tipo di informazioni. Qualche settimana fa, Wolfe ha intervistato Gregg Gonsalves, professore associato di epidemiologia presso la Yale School of Public Health, per fare il punto sui casi di monkeypox che, a giugno, hanno effettivamente trovato un canale di diffusione privilegiato in ambienti frequentati da omosessuali, come ad esempio i pride. Gonsalves ha specificato che «Questa non è una malattia gay; circola da molti anni nell’Africa occidentale e centrale»‚ e che «Quello che probabilmente è successo in questo caso è che qualcuno che aveva il vaiolo delle scimmie ha avuto una lesione e si è presentato a un rave gay in Europa, favorendo il contagio delle persone di quella stessa rete sociale e sessuale. E, poiché il virus preferisce uno stretto contatto fisico come mezzo di trasmissione, ha trovato un ambiente molto adatto per propagarsi».

Gonsalves sembra porsi sulla stessa linea di Andrew Lee, docente di salute pubblica all’Università di Sheffield, che in un’intervista a Reuters ha ha spiegato che «etichettare il vaiolo delle scimmie come una malattia gay è falso e ingiusto» e che «chiunque può essere contagiato se ha avuto un contatto diretto con una persona infetta», specificando che l’orientamento sessuale delle persone finora contagiate rappresenta un fattore d’interesse solo nella misura in cui può aiutare a tracciare l’evoluzione dell’epidemia, dal momento che «le infezioni si diffondono attraverso le reti sociali ed è più probabile che una persona infetta diffonda il virus alle persone con cui è in stretto contatto rispetto a quelle che non lo sono». Inoltre, come ha evidenziato bene l’analisi  di Facta, la comunità scientifica ha sollevato diversi dubbi anche in relazione alle modalità di trasmissione: lo scorso 23 maggio, l’OMS ha affermato che il vaiolo delle scimmie non rappresenta una malattia sessualmente trasmissibile – categoria in cui rientrano le infezioni trasmissibili attraverso lo sperma, i fluidi vaginali o il sangue, e il cui contagio avviene un occasione di attività sessuali, inclusi i rapporti orali e anali. Di conseguenza, il vaiolo delle scimmie può certamente diffondersi attraverso l’attività sessuale, ma solo quando questa implica un contatto diretto tra due o più persone o la contaminazione aerea dovuta alla presenza di goccioline.

Siamo in una fase delicata in cui le informazioni devono essere maneggiate e selezionate con cura: evitiamo di dare la caccia a nuovi capri espiatori.