Perché dobbiamo parlare dei suicidi degli studenti fuoricorso | Rolling Stone Italia
Diritti

Perché dobbiamo parlare dei suicidi degli studenti fuoricorso

A inizio ottobre è stato ritrovato il corpo senza vita di uno studente dell’università di Bologna nelle acque del fiume Reno. Non si tratta di un caso isolato, ma di una tendenza preoccupante che dovrebbe farci riflettere: l’ossessione dell'esame perfetto, della competizione sfrenata e della vittoria a ogni costo non sono più paradigmi sostenibili

Perché dobbiamo parlare dei suicidi degli studenti fuoricorso

Vi sarete accorti che, da qualche settimana, siamo (letteralmente) presi d’assalto da decine di articoli che esaltano le imprese dei cosiddetti “laureati prodigio”. Si tratta di una tendenza in voga già da qualche anno, ma che ha vissuto un’accelerazione negli ultimi mesi, trasformandosi in una sorta di genere giornalistico a parte: i quotidiani sono pieni zeppi di (lunghi, superflui, privi di qualsivoglia public interest, come dicono quelli bravi) panegirici elogiativi dedicati alle imprese di dottori in verdissima età capaci di anticipare i tempi canonici previsti per il completamento del ciclo di studi.

La normalizzazione degli “studenti prodigio”

L’epinicio più vistoso degli ultimi tempi è quello dedicato alle incredibili gesta di Nicola Vernola, alla sua laurea in giurisprudenza conseguita ad appena diciannove anni e a un raffazzonato elogio del sacrificio. Nel narrare le sue prodezze (non sappiamo se in maniera consapevole o meno) i giornali sembrano avere impiegato una sorta di versione depotenziata del modello narrativo del viaggio dell’eroe, quello sviluppato dallo sceneggiatore Christopher Vogler e basato sugli studi dello storico junghiano Joseph Campbell.

Semplificando all’osso: si tratta di una struttura fondata su alcuni archetipi e scandita da determinate tappe che, una volta percorse, porteranno l’eroe a completare il passaggio da un’auto-consapevolezza soltanto parziale a una cognizione finalmente completa. Solo che, nel racconto dedicato a Vernola, vengono depennate tutte le peripezie che, da canone, il protagonista dovrebbe superare per raggiungere la tanto agognata maturazione: il percorso compiuto dal giurista–fanciullino è talmente lineare e metodico da sfiorare la noia; insomma, più che un pellegrinaggio pieno di ostacoli, l’epopea del giovane Vernola assomiglia a una comoda (e velocissima) corsa in Frecciarossa.

Per chi fosse poco avvezzo alla vicenda: Vernola ha frequentato la prima elementare a cinque anni; a sedici e mezzo si è iscritto alla Luiss di Roma, dopo essersi diplomato alla prima sezione internazionale quadriennale del Lice Flacco di Bari. L’approdo nella capitale, dopo gli anni pugliesi, per Vernola ha rappresentato un ulteriore stimolo: «Questa città è fantastica, ci sono sempre cose nuove da fare, persone da incontrare. Ho iniziato a giocare a tennis, mi sono fatto tantissimi amici, ho girato diversi posti e locali», ha raccontato al Corriere. All’inizio, appena arrivato, gli è pure capitato di rimanere escluso dalla frenesia della movida capitolina per via della tenerissima età: «I miei nuovi amici non sapevano che ero minorenne», ha spiegato; per il resto, è andato tutto per il verso giusto: in appena 3 anni, ha completato tutti gli esami e ha discusso una tesi sulla neutralità dell’Iva e le sue concrete applicazioni, incassando gli applausi scroscianti dell’Ateneo. Una parabola agile e spensierata, quasi una passeggiata di salute.

Premessa: qui non si vuole sminuire in alcun modo l’abnegazione del ragazzo, né mettere in discussione i lunghi pomeriggi leopardiani trascorsi con la schiena china sui codici; Vernola sarà, con ogni probabilità, un professionista stimatissimo e un avvocato da fare invidia ai principi del Foro più blasonati. Peraltro, il suo non è un caso isolato: lo Stivale pullula di baby–laureati. Prima di Vernola, l’ambitissimo youth–record interno alla Luiss spettava a Federica Lorenzetti, alloro in Giurisprudenza ad appena vent’anni; prima ancora, il primato era condiviso da Francesco Di Carlo e Dario Campesan, entrambi laureati a 22 anni (tutti, neppure a dirlo, tributati da almeno un articolo encomiastico). Nel caso in cui non fosse chiaro, parliamo di ben quattro (!) enfant prodige addottorati nella stessa facoltà dello stesso Ateneo, segno che la precocità accademica, ormai, è diventata un cliché e non dovrebbe fare più notizia.

Una narrazione distaccata dalla realtà

Eppure, sfogliando un quotidiano, imbattersi in questo genere di aneddoti è normalissimo (sbirciando velocemente su Google, ne ho contati almeno una ventina). Ciò di cui si dibatte decisamente di meno è la narrazione che questa tipologia di racconti finiscono per normalizzare: un modello universitario votato quasi interamente alla competizione sfrenata, dove il merito è incarnato dalla velocità spasmodica con cui vengono bruciate le tappe; una gara tra la quintessenza degli sprinter dell’acquisizione di crediti che, nel racconto pubblico, vengono calati nei panni di modelli a cui qualsiasi studente idealtipico dovrebbe tendere: degli esempi positivi, insomma.

Dopodiché, però, c’è la realtà, quella in cui le condizioni di partenza non sono uguali per tutti, iscriversi a un’università privata è un’utopia per la maggior parte delle persone e, soprattutto, incontrare delle difficoltà (lungaggini burocratiche asfissianti, blocchi psicologici, esami difficili da superare) rientra nello spazio della norma; quella in cui, per intenderci, la laurea non dovrebbe essere soltanto il traguardo da tagliare per un “inserimento veloce nel mondo del lavoro”, ma anche un percorso di arricchimento personale e collettivo, un’attività che, per dirla con la nostra Costituzione, «concorra al progresso materiale o spirituale della società».

E una narrazione che incentiva gli studenti a darsi da fare per laurearsi a 19 anni, be’, francamente di progressista ha ben poco: invoglia a prendere le cose di corsa, a stigmatizzare chi per un qualsiasi motivo dovesse finire nel circolo neo–dantesco dei “fuoricorso” (nella vulgata comune, il più delle volte farvi ingresso equivale ad acquisire lo status di fallito), ad aumentare a dismisura il dividendo di pressione sociale e, soprattutto, a trasformare un’esperienza formativa in un patema d’animo, aumentando esponenzialmente il peso delle aspettative dei genitori.

La concorrenza incarna ormai l’unico, vero spirito del tempo, e l’università non fa eccezione; abbellimento del curriculum a ogni costo, rincorsa sofferta del mito (nella stragrande maggioranza dei casi, irraggiungibile) dell’eccellenza e un percorso di studi che acquisisce sempre più i contorni della prova del fuoco: eccola, la nuova normalità.

Morire per una manciata di crediti

Questa congiuntura, ovviamente, presta il fianco a risvolti tragici: se i ritratti elogiativi dei giovanissimi studenti modello trovano tantissimo spazio nel ciclo delle notizie, un discorso simile vale anche per l’altra faccia della medaglia, quella dei problemi che, quotidianamente, affliggono gli studenti che non arrivano alla laurea per tempo e che, nei casi più estremi, culminano in gesti estremi; quei casi che non si trasformano in articoli di costume dalla dubbia utilità, ma che finiscono per affollare le pagine di cronaca nera.

Il materiale a disposizione, purtroppo, non manca: l’ultimo, in ordine di tempo, risale a inizio ottobre, quando è stato ritrovato il corpo senza vita di uno studente iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Bologna nelle acque del fiume Reno, alla periferia della città. Aveva 23 anni e, secondo quanto emerso, qualche giorno prima aveva comunicato a parenti e amici che la discussione della tesi era ormai vicina. Ma non era vero: era indietro con gli esami e non ha retto il peso dell’aspettativa sociale – un anno prima, sempre a ottobre (uno dei periodi in cui si discutono le tesi), il cadavere di un altro fuorisede era stato rinvenuto sotto il Ponte Stalingrado: aveva invitato i familiari in città per la sua laurea che, invece, non era in programma.

A luglio, uno studente di medicina di Pavia si è ucciso all’interno del collegio dell’Edisu in cui alloggiava: prima di togliersi la vita, ha inviato un’email al Rettore in cui sottolineava la paura di perdere la borsa di studio e, quindi, la possibilità di vivere negli alloggi dell’ateneo. Nella lettera il giovane metteva in discussione il sistema dei crediti necessari per passare all’anno successivo del corso: «Sono lo studente che si è tolto la vita in collegio – aveva scritto nella lettera –, non sono riuscito a cambiare nulla. L’Edisu (l’ente per il diritto allo studio universitario, ndr) ha cercato di aiutarmi e gliene sono molto grato ma non è solo una questione economica ma anche di (in)giustizia».

Parole messe nere su bianco che fotografano una realtà fin troppo insabbiata: fuori dal ristrettissimo mondo ovattato dei laureati prodigio figli di liberi professionisti affermatissimi c’è una platea vastissima di studenti per cui il diritto allo studio dipende interamente dal welfare universitario: perdere i sussidi equivale a perdere la possibilità di laurearsi.

L’elenco è fittissimo, e dovrebbe stimolare una riflessione critica: forse, l’ossessione della prestazione perfetta, della competizione infinita, della vittoria ad ogni costo non sono più paradigmi sostenibili, il racconto dei baby–dottori non è poi così edificante e l’università non è soltanto l’anticamera della competizione propria di un mondo cattivo e all’insegna dell’antagonismo.

Lo ha spiegato molto bene Giulia Grasso, la studentessa che, a giugno, ha dedicato la sua laurea in Lettere antiche all’Università degli studi di Bari a tutti coloro che hanno vissuto un percorso universitario difficile. Nella sua lettera aperta, Grasso ha scritto: «Ogni giorno sentiamo notizie riguardanti studenti che si laureano in tempo record, di ragazzi che frequentano due facoltà, e chi più ne ha più ne metta. Io invece ho voluto dedicare tutti i miei sforzi […] a quelle persone che hanno preferito rinunciare, che sono state soffocate dall’ansia, che sono arrivate a preferire la morte piuttosto che a dover dire di non riuscire ad affrontare l’università italiana».

Parole che, probabilmente, passeranno inosservate ma che ci regalano una piccola speranza: forse, c’è vita oltre la competizione senza freni per l’acquisizione di crediti, forse la laurea non è soltanto una merce immateriale da dare in pasto ai recruiter su Linkedin.

Se hai pensieri suicidi, ci sono diversi numeri a cui puoi riferirti per avere assistenza, come il Telefono Amico, aperto tutti i giorni dalle 10 alle 24. Puoi contattare un operatore allo 02 2327 2327 o, se preferisci, via internet, cliccando qui. Puoi anche fare uno squillo all’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.

Altre notizie su:  Fuoricorso laurea Suicidi