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Per molti americani gli italiani non sono bianchi

In America impazza la mania di definire il concetto di bianco. In rete le discussioni sul colore degli italiani sono infinite, e la conclusione di buona parte degli americani è sorprendente: non sono bianchi. Tutt’al più “white latinos”

Per molti americani gli italiani non sono bianchi

Un gruppo di immigrati italiani arrivati a New York nel 1953

Foto: Getty Images

“Non esistono neri italiani”, o peggio “Non esistono ne*ri italiani”: dalle nostre parti è una delle frasi più comunemente utilizzate da fascisti, razzisti e intolleranti di ogni tipologia e specie. Naturalmente è uno slogan da stadio che nella realtà non ha alcun tipo di fondamento: neri italiani, latini italiani, asiatici italiani, ce ne sono già da almeno un secolo, e ce ne saranno sempre di più. Per fortuna, tra l’altro, visto che il melting pot è una ricchezza e una risorsa, nonché una caratteristica di quasi tutti i Paesi più avanzati a livello culturale e sociale. Indipendentemente da questo, però, avremmo un suggerimento per gli utilizzatori di questa frase che vogliano crearsi una visione più globale della questione. Ovvero farsi un giro su Twitter, Reddit, Yahoo Answers, Quora o qualunque altro social basato sulla discussione tra utenti, e digitare tre magiche paroline, possibilmente in inglese e seguite da un punto di domanda: “Are Italians white?”. Ovvero: gli italiani sono bianchi?

Per quanto ai nostri occhi possa sembrare un quesito stupido, in America la risposta è tutt’altro che scontata. O meglio, sembrerebbe quasi scontata, ma in senso inverso: no, gli italiani non sono bianchi, o comunque non del tutto. C’è chi li definisce “white latinos”. C’è chi, da afroamericano, li considera una minoranza a sé stante, chiedendosi ad esempio perché “i neri hanno la loro cultura cultura, gli asiatici pure, gli italiani anche, e i bianchi invece?”. Chi li mette nello stesso calderone con gli spagnoli, che comunque bianchi non sarebbero. Chi sostiene che oggi “non sono ancora bianchi, ma forse domani lo diventeranno”. Chi al contrario pensa che in passato non lo fossero, ma che ora lo siano diventati. Chi ne fa una questione di geolocalizzazione, e dice che gli italiani del Nord sono bianchi, mentre quelli del Sud no. Chi fa dei distinguo basati sul fototipo (l’italiano dalla carnagione olivastra è nero, l’italiano pallido è bianco). E via discorrendo. Il fatto che non siamo né anglosassoni né protestanti ci rende in qualche modo bianchi a metà, con gli oneri e gli onori del caso.

Il problema è molto sentito oltreoceano, soprattutto di questi tempi, con le statue di Cristoforo Colombo abbattute in ogni angolo della nazione. Autoproclamarsi bianchi o no – l’espressione inglese “of color”, da noi spesso tradotta erroneamente come “di colore”, vuol dire semplicemente “non bianco” e quindi indica anche asiatici, arabi, samoani, nativi americani e chi più ne ha, più ne metta – non definisce solo le tue origini, ma anche il grado di privilegio di cui hai potuto godere, quante discriminazioni hai storicamente subìto, quante e quali rivendicazioni hai il diritto di fare. Gli Stati Uniti sono un Paese dove, ancora oggi, nei questionari per la richiesta di un posto di lavoro o di una borsa di studio il compilatore deve sbarrare una casella che indichi in maniera univoca a quale gruppo etnico appartiene. E alla voce “altro”, quella per i non bianchi, capita che ancora oggi compaia la dicitura “italiano”, o “greco”, o “ebreo”, o “spaniard”, un termine ancora più bizzarro che indica spagnoli e portoghesi. L’ufficio del censimento americano da una parte riduce un po’ queste categorie, dall’altra le complica: nordafricani e mediorientali come tunisini, marocchini, siriani o yemeniti sarebbero da considerarsi bianchi, mentre il concetto di latinoamericano non esiste neppure. Insomma, un gran casino.

Viste da una prospettiva europea alcune di queste considerazioni fanno sorridere, eppure sono drammaticamente (e tragicomicamente) attuali. Qualche giorno fa, ad esempio, l’attrice Alyssa Milano è stata accusata di una pratica considerata odiosa: quella della blackface, che consiste nel dipingersi la faccia con un colore più scuro per scimmiottare i neri. È un atto particolarmente offensivo in quanto richiama la tradizione dei minstrel show, spettacoli satirici iper-razzisti che nei primi del ‘900 erano diffusissimi negli Stati Uniti. Milano ha ribattuto alle accuse replicando che stava facendo semplicemente la parodia di Snooki, star italoamericana del reality show Jersey Shore, famosissima per la sua insana passione per l’abbronzatura artificiale. Che un bianco voglia apparire più colorito non è accettabile; che lo voglia fare un italiano, qualsiasi cosa voglia dire questa espressione, lo è molto di più. In passato la stessa identica accusa era stata rivolta a Kim Kardashian, che negli anni scorsi, in occasione di numerosi shooting, aveva sfoggiato una tintarella decisamente sospetta. Da sempre viene accusata di cercare di passare per nera, complice anche il suo matrimonio con Kanye West; non era mai stata perdonata per averlo fatto, ma nell’ultima occasione in cui ha scurito la sua carnagione, dichiarando che voleva “impersonare Sophia Loren” l’ha sostanzialmente sfangata senza troppe critiche.

Molti afroamericani e latini sentono di avere parecchi punti in comune con chi ha origini mediterranee, anche per il fatto che ci sono alcuni canoni estetici che si sovrappongono. Jay-Z, ad esempio, nel testo di That’s My B***h dice testualmente “Appendete qualche ritratto di ragazze non bianche al MoMa / Portate le Penelope, le Salma, le Halle”: nulla da eccepire su Salma Hayek (libanese-messicana) e Halle Berry (madre britannica bianca e padre afroamericano), ma in teoria Penelope Cruz è bianca ed europea al 100%. Il parallelismo funziona anche in senso inverso: proprio ieri KW Miller, politico ultra-conservatore candidato a un seggio in Florida, ha twittato una sua personale teoria complottista secondo cui Beyoncé in realtà non sarebbe davvero nera, ma italiana. A quanto sostiene Miller, il suo vero nome sarebbe Ann Marie Lastrassi, e si fingerebbe afroamericana per attirare attenzione sul movimento Black Lives Matter, d’accordo con Soros. L’aspirante deputato è cascato con tutte le scarpe in una trollata di qualche settimana fa, e ad ogni modo il suo tasso di credibilità era già ai minimi storici da tempo – in passato aveva affermato che la diva R&B Patti LaBelle era una pedina di Lucifero e degli Illuminati – ma il semplice fatto che la cosa abbia fatto notizia fa capire tante cose.

Il tema dell’etnicità ambigua di italiani, spagnoli e greci (ma anche di polacchi, ebrei e irlandesi) è stato ampiamente affrontato e sviscerato in ambito giornalistico, accademico e personale. Chi lo vive sulla propria pelle, però, dà un’interpretazione ancora più sorprendente del fenomeno, almeno per noi che abitiamo da questa parte dell’Atlantico. È il caso ad esempio di Letizia Gambi. Di origine partenopea, cresciuta tra Napoli, Como e Milano, da diversi anni vive negli Stati Uniti, facendo la spola tra Miami e New York, dove ha costruito un’affermata carriera di cantante jazz lavorando al fianco di artisti prevalentemente afroamericani, con cui ha affrontato già parecchi tour di successo e pubblicato due album: il suo mentore è Lenny White, storico membro dei Return to Forever e collaboratore di Miles Davis. Avendo colori tipicamente mediterranei, viene scambiata quasi sempre per latina, ma quando scoprono che è una ragazza napoletana arrivata in America da adulta «sia bianchi che neri mi considerano bianca, non c’è dubbio. Soprattutto i neri», racconta al telefono. Se però fosse nata e cresciuta in America, spiega, la percezione non sarebbe esattamente la stessa: «Italiani e italoamericani sono considerati due mondi totalmente diversi, non sono visti allo stesso modo. Gli americani adorano l’Italia, la considerano molto cool, mentre gli italoamericani sono ancora associati a parecchi stereotipi». Tanto che esistono dei nomignoli dispregiativi, guidos e guidettes, da cui ancora oggi è difficile liberarsi. «Venivano affibbiati a quelli del New Jersey o di Long Island, un po’ tamarri, attaccabrighe, legati alla famiglia… È un pensiero che in qualche modo ghettizza, anche se ovviamente in maniera più lieve rispetto alla discriminazione che subiscono tante altre minoranze», osserva.

Questa comune esperienza del razzismo, anche se in gradazioni molto differenti, crea in qualche modo un terreno comune tra gli italiani e altre etnie minoritarie. «Molti miei colleghi afroamericani restano davvero stupiti quando scoprono che ci sono italiani del nord che disprezzano i cosiddetti ‘terroni’!» scherza Gambi. «E poi c’è un’altra cosa che italiani e afroamericani hanno in comune: da una parte tutti non vedono l’ora di godere dei frutti della nostra cultura (la musica, il cibo, la moda…), dall’altra però veniamo spesso visti con sospetto e diffidenza, come se avessimo dei tratti caratteriali che ci rendono sostanzialmente inaffidabili. È facile entrare in empatia». Chissà che vedere le cose da un’altra prospettiva non ci aiuti a riflettere sui nostri stessi pregiudizi: quante volte, da italiani, ci siamo chiesti se rumeni o ucraini sono da considerarsi davvero europei? E che dire dei bosniaci o degli albanesi, che sono a un tiro di schioppo dai nostri confini ma in maggioranza sono musulmani? La morale della favola è che ci sarà sempre qualcuno più “bianco” di noi: pensiamoci bene, quando ci troviamo a valutare e soppesare le battaglie e le percezioni degli altri bollandole come esagerate.