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Passano gli anni, ma per Conte perdere è sempre un’avventura meravigliosa

Da avvocato del popolo a Mr. Bean della politica italiana il passo è breve, e nessuno l’ha imparato meglio dell’ex premier

Foto: AM POOL/Alessandro Serranò/Getty Images

Immaginate per un attimo di trovarvi nei panni del biografo ufficiale di Giuseppe Conte e di dover assolvere al (difficile) compito di scrivere un memoir – che, per semplicità d’analisi e pigrizia, chiameremo I dolori del giovane Conte – che possa restituire il ritratto di un uomo tormentato e mettere in fila le fasi che hanno scandito il suo (travagliato) percorso politico.

Siete seduti alla scrivania da ore e fissate lo schermo sconsolati, attendendo un segnale dall’alto che possa consentirvi di buttare giù un incipit per quanto possibile decoroso; il tempo passa, i caffè e le sigarette aumentano, ma la solfa non cambia: vi rendete conto che scacciare lo spauracchio della pagina bianca è impossibile.

Vi fermate a pensare, indagando le cause che hanno generato la vostra stasi. Dopo una lunga pausa di riflessione, ne individuate almeno tre: gli spunti narrativi sono tantissimi, così tanti che sceglierne uno significherebbe fare un torto a tutti gli altri; le tesi si contraddicono tra loro, smentendosi a vicenda e impedendo alla narrazione di ingranare; e, soprattutto, lo spazio temporale in cui dovrebbero dipanarsi gli eventi (meno di 4 anni) è decisamente troppo ristretto per contenere la miriade di aneddoti, frasi a effetto, lotte fratricide, ascese, cadute e risalite che hanno reso l’arco di trasformazione contiano un unicum.

Sì perché, anche se può suonare straniante, nella lunga epopea della politica italiana Giuseppe Conte rappresenta una parentesi breve e trascurabile: si è affacciato sulla scena politica nel maggio del 2018, grazie a un coup de théâtre targato Salvini-Di Maio che ha agevolato la sua ascesa, trasformando un anonimo professore universitario di stanza a Firenze in un altrettanto anonimo presidente del Consiglio, il primo a non possedere neppure una pagina su Wikipedia.

Da quel maggio schizofrenico abbiamo conosciuto diversi Giuseppe Conte: in principio l’avvocato del popolo, garanzia del mantenimento dell’alleanza giallo-verde, firmatario entusiasta di ben due Decreti sicurezza (uno più schifoso e ignobile dell’altro) e burattino nelle mani di un ministro dello Sviluppo Economico convinto di aver abolito la povertà con una mancetta e di un ministro dell’Interno che non perdeva occasione per urlare a squarciagola che «per i clandestini è finita la pacchia»; nel mezzo il premier trasformista che, in un raro lampo di lucidità, dà sfoggio di tutto il suo coraggio e, emulando il sussulto di dignità di Fantozzi nella storica partita a biliardo con l’Onorevole Catellani, sceglie di ribellarsi al padrone e risolvere una crisi di governo nella maniera più democristiana possibile, ossia passando senza il minimo di pudore nel campo dei nemici; la terza fase del Conte politico è quella di un uomo che prova a mostrarsi rassicurante agli occhi di un popolo che si sta innamorando incomprensibilmente di lui, che non osa differire di una sillaba dall’agenda dettata da Rocco Casalino e che si trova a gestire in maniera dilettantistica una pandemia che sta mietendo migliaia di vittime e che ha preso il mondo intero in contropiede. Il quarto stadio è quello che ha messo in scena la caduta di un uomo rimasto solo, defenestrato da una vecchia volpe come Matteo Renzi e sostituito dalla figura più autorevole d’Europa.

La quinta stagione era iniziata da poco, e per la verità era partita con poco mordente: da idolo di una nazione a capo politico di un partito morente e cannibalizzato dalle sue stesse contraddizioni e – dopo il danno, la beffa – costretto pure a contendersi la carcassa con il Luigi Di Maio.

Una fase che, per fortuna tanto per noi quanto per lui, potrebbe essere già finita: ieri un tribunale di Napoli, accogliendo un ricorso presentato da alcuni iscritti, ha infatti sospeso la delibera con cui, ad agosto, il Movimento 5 Stelle aveva indetto l’elezione di Giuseppe Conte a capo del partito, di fatto sospendendolo dalla sua (già poco prestigiosa in partenza) carica. Il fu avvocato del popolo ha provato ad alzare timidamente gli scudi, sostenendo che la sua leadership non dipende da «carte bollate» e provando a mantenere quell’aura di eminenza che ha abbandonato da tempo nell’armadio. E poi, intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo, con una supercazzola condita di linguaggio specialistico giuridico, Conte ha rincarato la dose: «C’è un piano politico-sostanziale e uno giuridico-formale, che segna questa sospensione. Sospensione a cui si risponde con un bagno di democrazia».

Non sappiamo ancora come andrà a finire, ma una cosa è certa: da avvocato del popolo a Mr. Bean della politica italiana il passo è breve, e nessuno l’ha imparato meglio dell’ex premier. Consoliamoci, però; se l’incipit per il nostro memoir rappresenterebbe un ostacolo a tratti insormontabile, per la conclusione avremmo la strada spianata: «Passano gli anni, ma per Giuseppe Conte perdere è sempre un’avventura meravigliosa».

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