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Un ex rider di Foodora: «Lavoravo 40 ore a settimana per 400 euro»

Il primo processo italiano all'"economia dei lavoretti" ha dato ragione al colosso del food delivery. Ma cosa significa davvero stare tutto il giorno sui pedali per consegnare pizze e sushi?

Mercoledì il Tribunale del lavoro di Torino ha respinto il ricorso di sei riders di Foodora, multinazionale tedesca che consegna il cibo a domicilio in dieci Paesi nel mondo. I lavoratori contestavano l’improvvisa interruzione del rapporto di lavoro con l’azienda, a seguito degli scioperi e delle proteste del settembre 2016. Il tribunale ha dato ragione a Foodora e negato il reintegro dei lavoratori, l’assunzione, il risarcimento e il versamento dei contributi, richiesti dai legali. Per i giudici i fattorini sono lavoratori autonomi, quindi il trattamento è stato legittimo.

La sentenza del tribunale piemontese è importante, perché quella dei corrieri torinesi è stata una delle prime mobilitazioni nel mondo da parte dei lavoratori della cosiddetta gig economy, l’economia dei lavoretti, un modello sempre più diffuso – la fornitura di prestazioni più o meno occasionali, spesso tramite l’utilizzo delle tecnologie digitali – nei Paesi ricchi e soprattutto nelle grandi città. E quello di Torino è stato il primo vero processo, almeno in Italia, alla gig economy. Con l’obiettivo, inevitabilmente molto politico, di fare emergere le condizioni di lavoro di migliaia di giovani (e meno) cittadini (italiani e non), motore a basso costo di un’economia che macina profitti.

Perché quando una innovazione interviene sull’esistente e cambia con la sua forza d’urto le regole del gioco, c’è sempre chi ci guadagna e qualcuno che finisce per rimetterci. Non solo chi perde fette di mercato, ma, sostengono gli avvocati dei sei rider torinesi, i questo caso anche dei lavoratori, con i loro diritti. “Siamo soddisfatti, ora aspettiamo di leggere le motivazioni del giudice”, hanno detto all’uscita dall’aula i legali del colosso del food delivery.

Noi abbiamo voluto sentire la versione dell’altra parte in causa, qui rappresentata da Jamy, che lo scorso gennaio è stato al banco dei testimoni per raccontare la sua vicenda di ex trasportatore di Foodora. Quella che segue è la sua versione – questo è evidente -, ma, secondo noi, particolarmente interessante per capire come sta cambiando il mondo del lavoro (e non solo), e cosa potrebbe aspettarci nei prossimi anni.

Chi sei e da dove vieni?
Mi chiamo Jamy Salati, vengo da Parma e ho 23 anni. Tre anni fa mi sono trasferito a Torino per motivi di studio.

Quando hai iniziato a fare le consegne?
Nel febbraio 2016. É stato il primo lavoro che ho trovato, una volta trasferitomi. Sto studiando per diventare uno sviluppatore di videogame, e nel frattempo ho sempre fatto dei lavoretti per mantenermi. Due anni fa i miei coinquilini mi presentarono ai loro referenti di Foodora, per cui lavoravano. Ho fatto un colloquio e abbiamo iniziato la collaborazione.

Che tipo di lavoro facevi e quanto ti impegnava?
Consegne di pasti di ogni tipo, di poche centinaia di metri e fino a cinque o sei chilometri. All’inizio ero uno dei ragazzi che lavorava di più, fino a 35 o 40 ore settimanali. Mi muovevo con la mia bici, anche lo smartphone per ricevere gli ordini (via mail) e il casco erano miei.

Quanto guadagnavi?
5 euro e 60 lordi all’ora. In pratica ogni settimana comunicavamo le nostre disponibilità e facevamo richieste di avere determinati turni, che l’azienda accettava o meno. Io lavoravo di sera, dalle 19 e fino a fine turno.

Quanto arrivavi a guadagnare?

400 euro al mese, in media. Sono arrivato al massimo a 500. Per un lavoro, di fatto, a tempo pieno.

Come era il rapporto con i vostri referenti aziendali?
Non particolarmente buono. Ricordo telefonate e messaggi in cui mi si diceva, mentre ero in giro sotto la pioggia, di non pedalare come una femminuccia, o di mollare un po’ il freno.

E con i clienti?
Buono, siamo riusciti anche a sensibilizzare qualcuno sulla nostra vicenda. Alcuni hanno anche smesso di ordinare da Foodora, anche alcuni ristoratori hanno cambiato sistema. C’erano numerosi cittadini in tribunale in solidarietà ieri: è stata una bella risposta.

Cosa è successo nell’estate 2016, quando sono cambiate le cose per te?
Nei mesi successivi al mio ingresso l’azienda è cresciuta, c’è stato un incremento di personale. Le mie ore si sono ridotte drasticamente, fino a circa 15 alla settimana. A tutti i nuovi arrivati l’azienda offriva un nuovo tipo di contratto a cottimo: tre euro lordi per ogni consegna effettuata. Rimaneva, però, sempre la richiesta di disponibilità sulla base di turni. E, ci tengo a dirlo, non si poteva dire no a una consegna. Non siamo mai stati autonomi, come sostiene l’azienda e come ha detto il giudice.

Quante consegne si riescono a fare in un’ora?
Riuscire farne due è molto difficile, deve essere tutto in luoghi ravvicinati. Inoltre, se una consegna sforava dall’orario del turno, cosa che accadeva sempre, non potevamo comunque rifiutare.

Come ad alcuni dei ragazzi a processo a Torino, ti è stato chiesto di passare al nuovo contratto.
Ad agosto ci hanno detto che saremmo passati tutti al modello del pagamento sulla base delle consegne. A quel punto abbiamo iniziato le proteste: eravamo un’ottantina, molto compatti sulle nostre posizioni. Siamo riusciti a incontrare qualche dirigente di Foodora, ma non sono voluti tornare sui loro passi, al più offrivano un euro in più a consegna. A degli incontri si sono presentati con la digos. A quel punto, a novembre 2016, è terminato il mio rapporto di lavoro con loro.

Cosa hai raccontato in aula?
La mia storia, quella che ho detto a te.

Come ne esci da questa vicenda?
Con l’amaro in bocca, ma sapevo che sarebbe andata a finire così. Ritengo comunque sia stata un’esperienza necessaria, che mi ha fatto prendere coscienza delle mie responsabilità di cittadino e di lavoratore. Con le nostre rivendicazioni abbiamo acceso un faro su queste realtà e acceso dei focolai di protesta, da parte di chi è nella stessa condizione in giro per l’Europa. Se si arretra sulla dignità del lavoro torniamo al 1800. Non si può darla vinta al caporalato digitale.  

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