Non solo gli Stati Uniti: anche l’Italia fa la guerra per il petrolio | Rolling Stone Italia
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Non solo gli Stati Uniti: anche l’Italia fa la guerra per il petrolio

Secondo un nuovo studio di Greenpeace, due missioni militari italiane – in Libia e nel Golfo di Guinea – hanno l'unico scopo di proteggere gli interessi dell'industria dei combustibili fossili

Non solo gli Stati Uniti: anche l’Italia fa la guerra per il petrolio

Un uomo armato protegge una raffineria di petrolio in Libia nel 2011. Kuni Takahashi/Getty Images

Dopo anni di immobilismo e continui rimandi, nessuno in Italia sembra più negare la necessità di spingere l’acceleratore sulla decarbonizzazione e la diminuzione delle emissioni inquinanti. Da questo punto di vista (almeno sulla carta e al netto delle ormai note resistenze di Roberto Cingolani sulla possibilità di rinunciare subito al gas per investire tutto sulle rinnovabili), per l’Italia il 2021 avrebbe dovuto rappresentare un anno di svolta, dato che è stato addirittura istituito un ministero ad hoc per guidare il processo di transizione ecologica, con tanto di libertà d’azione in materia energetica – competenza che, precedentemente, era assegnata al Ministero dello sviluppo economico. 

Eppure, la maggior parte della spesa italiana per le missioni militari è ancora destinata a operazioni volte a proteggere le fonti fossili, comprese due missioni portate avanti con il compito esplicito di tutelare gli asset di Eni. Ci riferiamo all’operazione “Gabinia” nel Golfo di Guinea e all’operazione “Mare Sicuro” al largo della costa libica, due iniziative intraprese allo scopo di garantire la “sorveglianza e protezione delle piattaforme di ENI ubicate nelle acque internazionali”.

La prima missione (che ha avuto inizio nel 2020 e, finora, è costata più di 30 milioni di euro) riguarda l’impiego di “un dispositivo aeronavale nazionale per attività di presenza, sorveglianza e sicurezza nel Golfo di Guinea”. La seconda – contrariamente a quanto il nome potrebbe far supporre – non riguarda la “messa in sicurezza dei migranti”, ma la “sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’Eni ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica” – inoltre, è un’operazione che ha fatto molto discutere perché, tra i suoi compiti, rientrano anche quelli connessi alla missione a supporto della sedicente “Guardia costiera libica”, che ogni anno viene prima criticato e poi, puntualmente, prorogato. 

A confermarlo è la fotografia scattata dallo studio The Sirens of Oil and Gas in the Age of Climate Crisis: Europe´s Military Missions to protect Fossil Fuel Interests, pubblicato lo scorso 9 dicembre da Greenpeace. 

Secondo l’unità investigativa che si è occupata di redigere il rapporto – che comprende, tra gli altri, anche la giornalista italiana Sofia Basso – nel 2021 l’Italia ha destinato circa 797 milioni di euro per operazioni volte a tutelare la “sicurezza energetica” del Paese: una cifra altissima, pari al 64% del suo budget per le missioni militari. 

Non dovesse bastare, sommando tutte le operazioni “fossili” portate avanti dal Ministero della Difesa negli ultimi quattro anni, la spesa del nostro paese raggiunge la cifra record di 2,4 miliardi di euro. Un trend in costante crescita, perseguito nel silenzio e scegliendo di bypassare ogni possibile discussione pubblica sugli interessi che le Forze armate italiane sono chiamate a difendere annualmente impiegando i soldi dei contribuenti. 

Oltre alle summenzionate operazioni Gabinia e Mare Sicuro, anche altre missioni (come quelle in Iraq, nel Golfo di Aden, nel Mediterraneo orientale e nello Stretto di Hormuz) risultano strettamente connesse alle fonti fossili. 

L’unica differenza è che, mentre nei primi due casi il legame tra azione militare e difesa degli interessi strategici di Eni viene specificato esplicitamente nei mandati di missione, negli altri questo nesso di causalità è più sfumato: questa connessione, infatti, non viene fissata nero su bianco in documenti ufficiali, ma è implicita, legittimata in maniera “indiretta” in altre occasioni, in particolare durante le audizioni parlamentari del ministro della Difesa.

Del resto, non è necessario scomodare i cospirazionisti per collegare l’intervento italiano in Iraq al petrolio. A sancire inequivocabilmente quel legame è stato lo stesso Lorenzo Guerini, che il 25 giugno del 2020, durante un’audizione alla Camera, ha dichiarato che “Il crollo dell’Iraq, dal punto di vista securitario, avrebbe il potenziale di coinvolgere e travolgere l’intero Medio Oriente”, aggiungendo che “Per l’Italia, questo scenario metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica essendo l’Iraq, infatti, il nostro primo fornitore di greggio, rappresentando quindi – in termini “geo-energetici” – un partner di strategica importanza per i nostri approvvigionamenti. In tal senso, la nostra significativa presenza militare si traduce anche quale elemento fondamentale di una strategia di avvicinamento tra Roma e Baghdad volta a stabilire solide e più profonde relazioni in tutti gli ambiti”. 

In un intervento del 7 luglio del 2021, questa volta in Senato, Guerini è poi tornato sul punto, ribadendo che ““Nel quadrante mediorientale è confermato il nostro impegno in Iraq, Paese di elevata priorità strategica, sia sul piano degli equilibri regionali, sia a tutela dei nostri interessi nazionali, a partire dal tema prioritario degli approvvigionamenti energetici”. 

A preoccupare Guerini è anche la tensione crescente tra Turchia e Cipro, che renderebbe più difficoltose le possibilità di esplorazione del gas. Non a caso, a detta del titolare della Difesa, l’espansione italiana nel Mediterraneo Orientale – dove è necessaria una nostra presenza più regolare”, dato che “la possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche è fortemente condizionata dal contenzioso marittimo in corso” – rappresenta un’esigenza di primo rilievo. Inoltre, nei prossimi mesi, il nostro paese dovrebbe aderire anche a una missione europea nella provincia di Cabo Delgado (Mozambico), dove secondo il ministro gli scontri stanno causando “interruzioni dell’attività estrattiva”.

L’Italia, però, non è l’unico paese che sembra voler perseguire la strada del fossile: l’indagine di Greenpeace ha analizzato anche le missioni militari di Nato, Unione europea, Spagna e Germania, stimando che circa due terzi delle operazioni militari dell’Unione servono a tutelare attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio – negli ultimi quattro anni, i tre Paesi oggetto dell’indagine (Italia, Spagna e Germania) hanno speso più di 4 miliardi di euro per la protezione militare degli interessi petroliferi e gasiferi. 

La condotta del nostro paese contraddice in toto la Dichiarazione sul sostegno pubblico internazionale per la transizione all’energia pulita, che il governo italiano ha firmato in occasione della Cop26 di Glasgow. Il documento, infatti, impegna le parti a “porre fine a nuovi sostegni pubblici diretti al settore energetico internazionale delle fonti fossili non abbattute entro la fine del 2022”. Insomma, al netto delle buone intenzioni paventate durante i vertici internazionali, per il governo non sembra ancora arrivato il momento giusto per archiviare una volta per tutto petrolio e gas: la decarbonizzazione può ancora attendere.