Non ricorderemo nulla di questa pandemia | Rolling Stone Italia
Politica

Non ricorderemo nulla di questa pandemia

La crisi del coronavirus ha la stessa portata storica delle Torri Gemelle, ma chi la vive in isolamento e senza attivare la creatività potrebbe ricordarla poco e male: una neuropsicologa e un esperto di memoria spiegano perché

Non ricorderemo nulla di questa pandemia

Foto: Tomohiro Ohsumi/Getty Images

Ulric Neisser, psicologo tedesco naturalizzato statunitense, è stato un pioniere della psicologia cognitiva e uno di quelli che hanno dedicato anima e corpo alla ricerca nel campo della memoria. Ai suoi studenti raccontava spesso come fosse vivido in lui il ricordo di quando venne a sapere che la base americana di Pearl Harbor era stata attaccata. Si era appeno trasferito in una nuova casa da cui avrebbe traslocato di nuovo a breve. Era seduto in salotto, il giorno dopo avrebbe compiuto quattordici anni, e stava ascoltando una partita di baseball alla radio. La partita fu interrotta da un annuncio dell’attacco, e lui si precipitò al piano di sopra per dirlo alla madre.

Solo a distanza di anni, dopo aver letto una ricerca scientifica sulla flashbulb memory, flash di memoria molto simili a istantanee fotografiche, si rese conto che quel ricordo fosse una falsa ricostruzione poiché a dicembre, quando le forze aeronavali giapponesi colpirono la base di Pearl Harbor, non si disputavano partite di baseball.

Come la Seconda Guerra Mondiale o l’attentato alle Torri Gemelle ad alba di secolo, la pandemia da coronavirus è un evento di enorme portata storica. Il paradosso è che, per i fortunati come me che la stanno vivendo solo attraverso l’isolamento, si tratta di un evento monotono che si ripete senza distinzioni. Per questo motivo mi sono chiesto se ricorderemo com’è stato vivere durante una pandemia, e ne ho parlato con Igor Sotgiu, docente di Psicologia della memoria e delle emozioni presso l’Università di Bergamo; e Costanza Papagno, neuropsicologa, docente alla Bicocca di Milano e autrice di Come funziona la memoria (Laterza).

Secondo Sotgiu, «le persone che sono entrate direttamente in contatto con le sofferenze della malattia, contraendo il virus o magari subendo la perdita di una persona cara, avranno ricordi più vividi proprio perché associati all’accadimento di un evento emozionale. Ma tutti gli altri che hanno vissuto la pandemia solo attraverso l’isolamento probabilmente ricorderanno pochissimo, in modo confuso e sfocato».

Discorso a parte, invece, va fatto per coloro che questo stato di sospensione non l’hanno affatto vissuto: gli operatori sanitari. «Per quanto riguarda loro, la gamma di esperienze sarà molto variegata, ma sicuramente su questa categoria la pandemia lascerà ricordi lunghi, dolorosi e potrà dare luogo a disturbi clinici come il disturbo post-traumatico da stress. C’è da dire che è una categoria professionale molto abituata a confrontarsi con il dolore e la sofferenza, con maggiore resistenza e minore vulnerabilità». Chi ha impiegato questi mesi per scoprire una creatività che non pensava di avere o per imparare una nuova lingua, avrà più cose da ricordare. Ma chi, come me, ha continuato a svolgere il proprio lavoro da casa, senza particolari stravolgimenti né emozioni memorabili, no.

In alcuni contesti e periodi storici, l’isolamento è stato motore di attività interessanti e profonde riflessioni. Già nel 1790, quando il militare e pittore Xavier de Maistre si trovò costretto in isolamento per quarantadue giorni per espiare un duello con un commilitone, decise di impiegare quell’improvvisa concessione di tempo scrivendo Viaggio intorno alla mia camera: quarantadue capitoli, uno per ogni giorno di confinamento, dove percorre in lungo e in largo la stanza quadrata in cui è rinchiuso commentando mobili e oggetti e richiamando vecchi ricordi.

«La maggior parte delle persone, però», dice Sotgiu, «ha tamponato la sospensione del tempo con comunicazioni molto frequenti e poco salienti. Il rumore di sottofondo con cui abbiamo riempito il vuoto ha impedito alle persone di vivere esperienze emotivamente intense di cui avranno ricordo».

Anche secondo la dott.ssa Costanza Papagno è quasi sicuro che «col passare del tempo ricorderemo solamente che nel 2020 ci fu una grossa pandemia, come la Spagnola del 1918, che causò moltissimi morti. I bambini probabilmente ricorderanno solo di un lungo periodo in cui non sono andati a scuola e in cui i genitori erano più permissivi riguardo al tempo che potevano trascorrere davanti a un televisore».

La routine giornaliera e lo stillicidio a cui stiamo assistendo, quindi, si esauriranno senza lasciare tracce persistenti e longeve. I giorni, le settimane e i mesi verranno fusi e rimarrà solo il significato generico di ciò che è stato, nonostante oggi ci sembra di averne piena consapevolezza in ogni momento della giornata. Quasi niente, insomma, di tutto ciò che l’ecosistema mediatico e politico ci ha propinato da quando ci hanno detto di chiuderci in casa rimarrà. Niente polemiche sterili contro i runner, niente code sulla tangenziale, niente fake news e teorie cospirazioniste immesse e fatte circolare sui nostri feed, niente inquisitori dal balcone pronti a puntare il dito contro i primi poveracci per strada, niente conferenze stampa e bollettini di morte quotidiani. Come ogni storia che si rispetti, sgocciolerà l’estratto di un inizio, uno svolgimento e una fine. Ma il caos a cui stiamo assistendo, per fortuna, diverrà una macchia sfocata impossibile da ripescare. E la confusione e l’incoerenza con cui media e politici hanno affrontato e comunicato questa situazione contribuiranno a rendere confusi i nostri ricordi.

A distanza di qualche anno, conserveremo solo vaghe istantanee scattate dal nostro cervello che faremo fatica a ricollocare nello spazio-tempo in cui sono avvenute. Magari riaffioreranno mentre ci laveremo le mani: il pomeriggio in cui siamo usciti a cantare sul balcone, il primo annuncio a reti unificate con cui Conte comunicò che tutta l’Italia diventava zona rossa, il giorno in cui, si spera, venne finalmente trovato un vaccino.

Come ha detto a Vice USA Dorthe Bernsten, professoressa di psicologia presso la Aarhus University in Danimarca, un’altra cosa che potremmo ricordare di questo periodo, stranamente, sono cose che non abbiamo fatto e che non si potevano fare: vedere la propria famiglia per le vacanze, andare a un matrimonio, stare con i propri amici, fare una festa di compleanno. «Questi saranno ricordi», ha detto. «Ma ricordi di un’assenza».

Sicuramente un ruolo significativo nel ricordo che avremo in futuro spetterà al racconto che verrà fatto una volta finita la pandemia, perché a freddo sarà più facile rimontarne in ordine i pezzi. «Sarà importante costruirla, questa narrazione», dice Sotgiu, «perché le narrazioni aiutano le persone ma soprattutto le comunità ad attribuire un significato alle proprie esperienze».

A patto di tenere a mente che ogni volta che ricordiamo e accediamo al nostro passato, lo facciamo nel presente. «I ricordi», dice Sotgiu, «vengono sempre scritti nel tempo presente». Manipolazioni e alterazioni sono parte di noi, quindi. «É una delle prime teorie della memoria: la teoria della traccia multipla», spiega Papagno, «quando ricordiamo, facciamo una ricostruzione e ogni volta le ricostruzioni sono diverse, sia per interferenze interne, sia per ciò che sentiamo da altre persone. Ogni volta si forma una nuova traccia di memoria: da un alto è il motivo per cui ricordiamo meglio le cose rievocate tante volte, dall’altro è la causa per cui i ricordi si alterano e non sono mai uguali»

Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, ad esempio, sono state condotte diverse ricerche a proposito dei ricordi di chi visse quell’episodio. Quasi tutti avevano un alto grado di fiducia sulla veridicità di ciò che ricordavano: dov’erano quando hanno appreso la notizia, insieme a chi, cosa indossavano. Ma è stato dimostrato come i ricordi, a dispetto di quello che pensavano, fossero molto poco accurati, confusi e contrastanti.

Anch’io, che l’11 settembre 2001 avevo da poco compiuto quattro anni, conservo un ricordo chiaro. Il telegiornale comunicò la notizia mentre ero in cucina. Probabilmente ci eravamo prolungati a tavola più del solito perché era rimasta ancora qualche fetta dalla torta del mio compleanno. E sono abbastanza sicuro che mia madre disse la cosa più normale che si può dire in questi casi: «Che tragedia». Ma è improbabile. Mia madre può aver fatto quel commento in un altro momento o non averlo mai fatto. Della torta di compleanno potrei ricordarmene non perché ne era rimasta una fetta, ma perché era finita e ci ero rimasto male.

Altre notizie su:  coronavirus