Nichi Vendola: «Il Pride non dovrebbe accettare denaro da chi sfrutta i lavoratori» | Rolling Stone Italia
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Nichi Vendola: «Il Pride non dovrebbe accettare denaro da chi sfrutta i lavoratori»

L'ex governatore della Puglia, ospite della Pride Week per commentare il documentario 'Sex Revolutions', si racconta: il passato da attivista, la paternità, la sconfitta della sinistra e l'ascesa della destra sovranista

Nichi Vendola: «Il Pride non dovrebbe accettare denaro da chi sfrutta i lavoratori»

“Onda barbara”. Nichi Vendola non usa mezzi termini per descrivere l’attuale contesto socio-politico. Cresciuto negli ambienti del fu Partito Comunista Italiano, fondatore di Sinistra Italiana, figura di spicco di quell’ala della sinistra che si pone più a sinistra del Pd, il sessantenne ex governatore della Puglia, omosessuale dichiarato, è stato tra i promotori dell’Arcigay. Ripresosi dall’infarto che lo ha colpito lo scorso ottobre, si sta dedicando alla sua vita di marito di Ed Testa, progettista grafico con cui convive dal 2004 e con cui si è unito civilmente quasi due anni fa, e di padre di Tobia, suo figlio nato nel febbraio 2016 in Canada grazie alla maternità surrogata. Venerdì 28 giugno alle 18.30, in occasione della Pride Week milanese, sarà alla Fondazione Feltrinelli per commentare con il giornalista Roberto Festa ed Elena Biagini, attivista storica del movimento lesbico, la proiezione di Sex Revolutions, documentario di Sylvain Desmille sulle rivoluzioni sessuali che hanno ridefinito le nostre società dal dopoguerra agli anni 70. Lo abbiamo contattato per parlare di diritti Lgbtq+, di quell’Onda Pride che sta riempiendo il nostro Paese di bandiere arcobaleno, della sua storia di padre e attivista, del rapporto tra marketing e politica. E di chi non crede che la sua sia una famiglia degna di questo nome.

Quest’anno si festeggia il 50esimo anniversario dei Moti di Stonewall, le rivolte scoppiate nel giugno 1969 a New York, dopo una retata della polizia allo Stonewall Inn, bar gay nel Greenwich Village: fu la nascita del movimento di liberazione omosessuale. Mezzo secolo di orgoglio gay: che cosa significa per lei quest’espressione?
Per me il “pride” è stato ed è il rifiuto di occultare, minimizzare e sterilizzare la mia diversità. È la fuoriuscita dalla gabbia dei sensi di colpa, è il congedo definitivo dalle trappole del vittimismo, ed è un gesto quotidiano di militanza. Potersi dire, nominare, darsi senso e parole, alla luce del sole, certo anche con l’orgoglio di chi ha dovuto scalare il cielo e scansare l’inferno per giungere in cima alla propria libertà.

Può raccontare la prima volta in cui fu discriminato o anche solo non rispettato in quanto omosessuale?
In tutta sincerità devo dire che sono stato un adolescente e poi un giovane felice. Ho tessuto reti affettive che mi hanno protetto dalla maldicenza e dal bullismo, nascondevo la timidezza e le mie paure dietro il carisma che si conquista un piccolo leader ai tempi del liceo. Negli ultimi anni liceali comunicai la mia omosessualità ad alcuni compagni e soprattutto a tutte le compagne di classe: erano tutti curiosi. E io non solo raccontai la storia dei miei desideri, ma glieli presentai in forma di diritti da rivendicare: ai miei tempi si imparava la “politicità” del privato e non potevo non ragionare, partendo magari da un’avventura di mezza estate, di cosa impedisse di vedere nella molteplicità dell’amore e degli amori un dato di realtà, e non una sovversione della realtà. In fondo è la diversità che ci rende eguali.

Possibile che non abbia vissuto momenti brutti?
Non contano gli episodi, contano il clima, lo stigma da combattere, la danza macabra dei luoghi comuni. Conta la solitudine che si prova. Qualche volta si conosce la violenza delle parole, qualche altra la violenza dei gesti, ci sono ferite che non si cicatrizzano mai. Ma ne è valsa la pena: se era questo il prezzo da pagare per essere libero e autentico, va bene. E va bene persino pagare il prezzo supplementare di sentirsi talvolta derubati di quel senso di pudore che cerca di proteggere l’intimità. Pazienza, sono felice di vedere oggi le generazioni più giovani di gay e lesbiche vivere con serenità le proprie relazioni d’amore. Abbiamo combattuto anche per loro.

Che cosa intende quando dice che “si imparava la politicità del privato”?
Allora eravamo segnati dalle culture critiche post-68, il femminismo aveva aperto una riflessione radicale sulla genesi dei ruoli sessuali, le colonne d’Ercole di un mondo chiuso e intento a replicare se stesso erano state finalmente varcate. Eravamo in mare aperto e l’unica strumentazione di bordo per non andare a sbattere era rappresentata da una buona bibliografia: romanzi gay e teorie femministe. Poi verranno le arditezze poetiche, politiche e teoriche di Mario Mieli. Oggi si può essere felicemente gay anche senza troppi ausili culturali, ma proprio perché gli ausili culturali hanno funzionato.

Ricorda la prima volta in cui si batté privatamente per i suoi diritti di omosessuale?
Avevo 19 anni, firmai un articolo su un giornale del mio paese (Terlizzi; ndr), nel profondissimo Sud. Era un pezzo forte e piuttosto lirico contro l’omofobia e sul diritto a vivere liberamente per ciò che si è: s’intitolava “Le farfalle non volano nel ghetto”. Era il mio coming out, dinanzi a tutta la mia gente. Non è stato facile né indolore, capita anche di inciampare nella volgarità di alcuni, ma a me tutto sommato è andata bene: alcuni miei coetanei furono molestati, picchiati o, peggio, curati dallo psichiatra. Io mi difendevo studiando e diffondendo romanzi e testi femministi.

Perché testi femministi?
Il femminismo era l’unico sapere critico che offrisse paradigmi cognitivi e vocabolario alla nostra realtà, ci forniva le parole che ci davano coscienza, ci rendeva capaci di dare peso specifico e valore alla nostra omosessualità, ci aiutava a comprendere la radice patriarcale e maschile dell’omofobia. Il femminismo fu il contesto reale che consentì al mondo gay di incontrare la politica, la politicizzazione di una condizione che usciva allo scoperto e si dotava finalmente di soggettività e di rivendicazioni. Anche la letteratura femminile – Virginia Woolf, Marguerite Yourcenar… – ci apriva lo sguardo su noi stessi. E poi irruppe nella nostra vita la profezia dolente di Pasolini, che fu maestro di decostruzione dell’ipocrisia come fondamento dei costumi nazionali.

E il femminismo odierno? Che ne pensa?
Oggi il femminismo si articola in una molteplicità. C’è un femminismo radicale che si propone come critica sociale della società maschile, c’è un femminismo più culturale che si propone come codice etico e narrazione positiva, e c’è un femminismo che vive lontano dai cenacoli intellettuali e costruisce pratiche quotidiane di libertà femminile e solidarietà. Nessuno di questi può pretendere di rappresentarle tutte, le donne.

Sei anni fa dichiarò che non poteva uscire di casa da solo la sera, a Roma, perché avrebbe rischiato aggressioni e insulti. Perché lo disse?
Penso che allora mi riferissi alla crescente decadenza della Capitale, oltre che agli effetti collaterali del lessico dell’intolleranza, ciò che oggi rappresenta il linguaggio del pezzo più ruspante della nuova classe dirigente: una classe di surfisti convinta che si possa governare una società complessa cavalcando l’onda dell’opinione social, piuttosto che andando in profondità, alleandosi al mondo dei saperi, allenandosi alla fatica della scelta più giusta – non quella che ha più like -, rifiutandosi di chiamare modernità quegli istinti tribali che nominiamo come “sovranismo” e “populismo”. Questi qui fanno paura. Hanno legittimato la ferocia barbarica dei “porti chiusi” travestendola da principio di realtà, hanno banalizzato la questione del neo-fascismo e del neo-nazismo. Si mescolano con l’integralismo della destra anti-conciliare del cattolicesimo, ripropongono la litania antiabortista e quella crociata familista che ha convocato i suoi spettri mondiali al congresso di Verona dello scorso marzo. Fanno paura e sulla paura investono.

Anche la sinistra ha spostato l’attenzione sui temi della sicurezza. E non si è mostrata compatta sul fronte delle lotte per i diritti civili. Agitare lo spauracchio del rischio di fascismo, anziché portare avanti proposte concrete, non è solo una scusa per non fare autocritica?
La sinistra riformista ha pensato di inseguire la destra sul terreno della destra, con la pia illusione di ridurre il danno. Così si è riscoperta neo-liberista e securitaria, deformando e rendendo irriconoscibile il proprio progetto. I tanti Salvini d’Europa sono anche il frutto della subalternità delle sinistre governiste ai totem e ai tabù della rivoluzione liberista e dell’austerità. Una galassia sconfinata di ceti sociali, medi e medio-bassi è stata terremotata dalla crisi e la paura della povertà non ha incontrato le bandiere rosse della giustizia sociale, ma le bandiere nere della guerra tra poveri: una guerra scatenata anche trasformando il racconto dell’esodo drammatico dei migranti e dei profughi in un fenomeno criminale. Quando la sinistra perde l’anima, perde anche le elezioni.

Tornando al tema di quest’intervista, ha avuto un figlio tramite la “gestazione per altri”, il cosiddetto “utero in affitto”, e c’è chi le contesta che non voglia dire quanto è costata la trafila con l’agenzia di riferimento, che secondo alcuni sarebbe la Extraordinary Conceptions di Sacramento.
Neppure la conosco quest’agenzia. Ma non è rilevante. È rilevante che chi contesta, contesta innanzitutto le donne che consentono di praticare la “gestazione per altri”. Ma noi, per esempio, abbiamo trovato donne desiderose di accoglierci nelle loro famiglie e di diventare parte della nostra. I nostri critici non credono possano esistere donne della media o alta borghesia americana e canadese che scelgono di offrire un ovulo o di accogliere un embrione nel proprio utero, e sono donne che si dichiarano felici di averlo fatto. Sulla stampa italiana la meravigliosa donna che ha partorito il figlio di Ed e mio è diventata “indonesiana”, forse perché è facile associare l’Indonesia alla miseria. Peccato non sia indonesiana. E quando le ho detto che in Italia si usa quest’espressione violenta, “utero in affitto”, si è adirata.

Teme mai che suo figlio possa avere dei problemi a crescere con due genitori uomini?
Credo di avere le paure che hanno tutti i genitori: paura di sbagliare, di non capire, di perdere spazio e autonomia, di viziare mio figlio, di potermi distrarre dal mio dovere di custode. Insomma, tutte le paure che poi svaniscono quando ti accorgi che con lui ti diverti e impari.

Che cosa risponde ai detrattori del cosiddetto “utero in affitto”, che sostengono che l’esistenza stessa di questa pratica spinga molte donne a usarla solo per bisogno di denaro?
Gli direi che “ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la tua filosofia”.

Così cita Shakespeare, ma non risponde.
Gli direi che la mia esperienza è stata differente da come la immaginano loro, e che tutte le storie di “famiglie arcobaleno” che conosco sono altrettanto ricche di scambio affettivo, di umanità, di consapevolezza dei doveri di una genitorialità matura e impegnata.

È disposto ad ammettere che certi diritti come la possibilità di usufruire della maternità surrogata sono oggi diritti solo per i più benestanti? Mi riferisco anche all’inseminazione artificiale per le donne lesbiche.
I rischi della mercificazione ci sono e vanno prevenuti con una regolamentazione seria incentrata sul concetto di gratuità. E cominciando a modificare le norme vigenti per consentire l’adozione anche ai single e alle coppie gay. Vorrei dire una cosa, però.

Prego.
Noi non stiamo inventando un’ideologia, quella del Gender, che viene poi presentata come un episodio di Black Mirror, come un’allucinazione futurologica. Intorno a noi non c’è la famiglia con la “F” maiuscola e la sua supposta normalità: ci sono le famiglie con la loro eccentricità, c’è una molteplicità di forme di famiglia – ciascuna unica e irripetibile – che chiede di essere conosciuta e rispettata. Fingere di non sapere questo è grave, soprattutto per chi esercita potere. E chiudere la discussione con l’evocazione della tecnica che si mangia l’umano non penso sia il modo più corretto per affrontare i rischi del dominio della tecnica sulla politica e sulla vita. Del resto, pensavo che la tecnica si fosse già divorata la politica, anche a sinistra. So bene che il fatto che le nuove tecniche di procreazione consentano di procreare per altri rappresenta un salto nell’immaginario sociale. Alle nostre spalle c’è la separazione tra sessualità e procreazione, dinanzi a noi l’inedito della procreazione separata dalla sessualità. Anzi, questo è già accaduto e descriverlo come crimine contro l’umanità non crea più conoscenza: ferisce le persone e, ripeto, chiude la discussione.

E il Vaticano? La Chiesa non è certo d’aiuto alla causa del movimento Lgbt. Immaginiamo una cena tra lei e Papa Francesco, che gli direbbe?
Non sarei mai così invadente, ammiro il coraggio di Papa Francesco e non farei mai nulla che potesse nuocergli o creargli imbarazzo. Conosco il pensiero della Chiesa sul gender e le “famiglie arcobaleno”, tuttavia penso che questo pontificato sia l’unico vero riferimento alternativo al nuovo mostro planetario che ha preso forma a partire dalla vittoria di Trump.

In compenso i Gay Pride sono ormai sponsorizzati o sostenuti con iniziative pubbliche da qualsiasi tipo di azienda: agenzie pubblicitarie, grosse multinazionali, piattaforme di shopping online e consegna a domicilio. Perché gli omosessuali sono una una nicchia di mercato che fa gola. Crede sia giusto che eventi primariamente politici si leghino a marchi commerciali, incluse realtà criticate da più parti perché non così attente ai diritti dei lavoratori?
Come si fa a immaginare che l’universo Lgbt debba essere immunizzato dal mercato? Il mercato investe sulla varietà della domanda e quello gay è un pubblico importante. Il Pride, certo, è anche una grande impresa economica, ma non penso che questo ne depotenzi il messaggio politico. Ciò che, invece, mi pare necessario è controllare che tra gli sponsor non ci siano aziende che magari praticano comportamenti vessatori verso i lavoratori: i diritti civili e i diritti sociali sono legati da un nodo indissolubile.

Ma un’icona gay preferita, ce l’ha, Nichi Vendola?
Confesso di essere da sempre turbato da un’icona gay classica, cioè da Maria Callas, dalla scultura del suo volto mitologico, dal suo profilo fiero, drammatico e dolcissimo, dai suoi occhi antichi da regina, dalla sua voce senza retorica, ugola della bellezza e del dolore. Ecco: quando pensi che l’umano e il divino si incrociano e danzano insieme, ed è la Callas della Norma di Bellini che canta “Casta Diva”.

E una canzone perfetta per il Gay Pride?
Come si fa a scegliere una canzone? Non dirò titoli dei Queen o di Patty Pravo. Sceglierò un classico della canzone tradizionale, ancora più emblematico proprio per questa ragione: Il nostro concerto di Umberto Bindi.

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