Nel 2022, non è più accettabile morire per uno stage non retribuito | Rolling Stone Italia
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Nel 2022, non è più accettabile morire per uno stage non retribuito

Ieri il 17enne Giuliano De Seta è stato schiacciato da una lastra di metallo all'interno della ditta in cui stava svolgendo un tirocinio per acquisire dei crediti formativi. Un’altra morte in un luogo di lavoro, dove uno studente non dovrebbe stare

Nel 2022, non è più accettabile morire per uno stage non retribuito

Una manifestazione a Roma dopo la morte di Lorenzo Parelli

Foto: Stefano Montesi/Corbis via Getty Images

A meno di un anno dai tragici fatti dello scorso 21 gennaio – quando Lorenzo Parelli, studente dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine, ha perso la vita dopo essere stato colpito da una trave d’acciaio mentre lavorava alla Burimec di Lauzacco di Pavia di Udine, dove stava svolgendo uno stage gratuito – e del 19 febbraio – quando Giuseppe Lenoci, che studiava in un centro di formazione professionale e stava completando un tirocinio in una ditta di termo–idraulica, è morto mentre sedeva al posto del passeggero a bordo di un furgone che è finito contro un albero a Serra de’ Conti, in provincia di Ancona – un’altra morte da tirocinio non retribuito è tornata a catalizzare l’attenzione mediatica, riportando al centro del dibattito pubblico il tema delle scarse tutele dell’alternanza scuola–lavoro.

Ieri il diciassettenne Giuliano De Seta, che frequentava l’istituto tecnico Da Vinci e stava completando uno stage presso la Bc Service di Noventa di Piave – un’azienda che opera nel settore meccanico e idraulico e si occupa, tra le altre cose, di saldatura e realizzazione di stampi – è stato schiacciato da una lastra di metallo del peso di due tonnellate.  Mentre i carabinieri tentano di comprendere come sia stato possibile che lo studente, durante uno stage a paga zero, si trovasse in una situazione di pericolo, è il caso di riavvolgere il nastro: come siamo arrivati a questo punto?

L’alternanza scuola lavoro è un portato della cosiddetta “Buona scuola”, ossia la legge 107/2015 fortemente voluta dal governo Renzi per garantire una maggiore autonomia agli istituti scolastici. La ratio che dovrebbe giustificare l’alternanza è semplice: partendo dal presupposto che, in Italia, gli studenti acquisiscono moltissime nozioni ma pochissime competenze (modellato perfettamente sul falso mito secondo cui “Con la cultura non si mangia” e sulla retorica dei “giovani fannulloni”), la previsione di periodi di stage da svolgere in azienda avrebbe dovuto consentirgli di sviluppare, “on the job”, un’effettiva capacità di prestazione professionale.

Il meccanismo è stato introdotto tra il 2003 e il 2005 negli istituti tecnici e professionali dalla ministra dell’Istruzione Letizia Moratti, inizialmente in forma facoltativa e poi obbligatoria. La Buona scuola renziana lo ha esteso anche ai licei. Così è diventato indispensabile per tutti gli studenti degli ultimi tre anni di superiori, con un monte ore differenziato in base agli istituti. Nel 2018 è stato ribattezzato PCTO – Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento –, ma la sostanza è rimasta la stessa.

L’alternanza scuola lavoro ha spaccato in due il dibattito pubblico: c’è chi ritiene che sia utile per “svezzare” lo studente e prepararlo in maniera adeguata all’ingresso nel mondo del lavoro e chi, al contrario, ne sottolinea le storture e un’impostazione troppo improntata all’aziendalismo. A lungo si è discusso, infatti, di come queste novità degli ultimi anni non abbiano fatto altro che confermare l’idea che al Ministero dell’Istruzione e a quello del Lavoro interessino (come nel caso dei test Invalsi) studenti e insegnanti performanti pronti a immolarsi per la scuola-azienda, più che persone dotate di capacità critica che decidano di formarsi per dare seguito alle proprie inclinazioni e attitudini.

In un interessante approfondimento pubblicato su MicroMega, il pedagogista Massimo Baldacci, provando a domandarsi quale possa essere, alla fine del percorso, l’effettiva utilità di un’esperienza del genere, evidenzia come il tracciato delineato dalla legge 107/2015 sia eccessivamente sbilanciato dal lato del datore di lavoro, dato che impedisce al giovane di acquisire una consapevolezza critica del mondo del lavoro, insegnandogli più a obbedire agli ordini e ad abituarsi alla precarietà che ad avere un’effettiva contezza dei propri diritti di lavoratore. «Il giovane impara che deve adattarsi alle necessità aziendali; impara che deve essere acquiescente al comando sul lavoro; impara che il suo destino dipende da questo (oggi in rapporto alla valutazione scolastica, domani rispetto alla conservazione di un posto di lavoro precario). E impara che egli è impotente rispetto a questo stato di cose, e quindi che si deve rassegnare», spiega Baldacci.

È uno spunto di riflessione importante e che deve farci riflettere: tre decessi in un anno, a maggior ragione quando si parla di lavoro non retribuito (perché, nei fatti, di questo si tratta) non sono mosche bianche, ma numeri allarmanti che devono stimolare una riconsiderazione critica dello stato dell’arte. Se ci addentriamo nella conta dei feriti degli ultimi anni, poi, il quadro che emerge è talmente drammatico da apparire irreale: lo scorso 16 giugno, a Rovato, uno studente sedicenne è precipitato da un cestello elevatore di cinque metri ed è stato portato in ospedale in condizioni critiche; il 4 febbraio del 2020, alla Emmeti Mondino Trattori di Genola, in provincia di Cuneo, un diciassettenne è finito in terapia intensiva dopo essere stato travolto da una cancellata in ferro. Nel giugno di due anni prima a Montemurlo, vicino Prato, un suo coetaneo si è amputato una falange mentre lavorava in un’officina meccanica.

Il 7 ottobre del 2017, in un episodio che esemplifica al meglio l’attenzione che alcuni datori di lavoro riservano agli studenti, un sedicenne è stato schiacciato dal carro elevatore del muletto che stava guidando senza patente, provocandosi una frattura scomposta della tibia. Nel dicembre dello stesso anno, a Faenza, un diciottenne si è fratturato le gambe dopo che il braccio meccanico di una gru gli è franato addosso – nella colluttazione ha perso la vita un operaio di 45 anni.

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: quanti altri episodi del genere dovranno verificarsi prima che l’idea di un sistema unicamente volto al profitto e allo sfruttamento cambi una volta per tutte?