Luca Mercalli: «Basta negazionisti del clima in televisione» | Rolling Stone Italia
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Luca Mercalli: «Basta negazionisti del clima in televisione»

Dal disastro della Marmolada agli scivoloni dell'informazione italiana in tema di climate change, una chiacchierata con il climatologo torinese: «In un paio di secoli anni abbiamo ributtato nell’atmosfera quello che la natura, in milioni di anni, aveva tolto; e questa, ovviamente, è un’intossicazione»

Luca Mercalli: «Basta negazionisti del clima in televisione»

Luca Mercalli (Torino, 24 febbraio 1966) è un meteorologo, climatologo, divulgatore scientifico e accademico italiano, noto al pubblico televisivo italiano per la partecipazione alla popolare trasmissione Che tempo che fa. Mantova ,12 settembre 2021. Foto di Leonardo Cendamo/Getty Images

Incendi, valanghe, siccità e temperature record: l’estate 2022 ci sta mostrando da vicino cosa potrebbe accadere in un futuro non troppo lontano a causa del riscaldamento globale. Quella dei cambiamenti climatici è la sfida più urgente del nostro tempo, eppure alcune voci provano ancora a metterla in discussione e a sottostimarne la portata, ad esempio negando le responsabilità umane nella crisi in atto o ritardando il processo di diminuzione delle emissioni inquinanti. Anche i tragici fatti della scorsa domenica, quando 7 persone sono state trovate morte dopo il crollo di un’enorme porzione di ghiacciaio nella Marmolada, hanno proiettato nuovamente al centro del dibattito pubblico il tema della disgregazione della criosfera: a causa del riscaldamento globale, i ghiacci e le nevi che ricoprono alcuni pezzi della superficie terrestre, di anno in anno, si sciolgono in misura maggiore di quanto poi riescano a righiacciare durante l’inverno. Ne abbiamo parlato con Luca Mercalli, meterologo, climatologo e divulgatore scientifico italiano, noto al pubblico televisivo italiano per la sua collaborazione con Che tempo che fa. Dal disastro della Marmolada agli scivoloni dell’informazione italiana, dal fumo negli occhi dei negazionisti alle politiche nazionali ancora largamente insufficienti per raggiungere l’obiettivo delle emissioni nette entro il 2050, il punto cruciale è sempre lo stesso: «In un paio di secoli anni abbiamo ributtato nell’atmosfera quello che la natura, in milioni di anni, aveva tolto; e questa, ovviamente, è un’intossicazione».

Partiamo dalla strettissima attualità e dal dilemma che stanno sollevando alcuni osservatori: quella della Marmolada è stata una fatalità o un disastro annunciato?
Tutte e due le cose. Diciamo che qualcosa si poteva prevedere a un livello “generalista”, nel senso che ovviamente su tutti i ghiacciai, quando fa caldo, il rischio di valanghe aumenta; però non si potevano prevedere l’ora, il luogo e le modalità in cui il tutto si è verificato, quindi fondamentalmente era un’informazione che non aveva una possibilità di utilizzo pratico. È un po’ quel che accade nei weekend col bollino rosso: c’è più traffico, quindi il rischio di incidenti per forza di cose aumenta, ma non per questo si può imporre un divieto di circolazione a tutte le macchine o bloccare le strade. Similmente, non si poteva pensare di chiudere i 4400 ghiacciai presenti sulle Alpi: cosa si poteva fare? Un’ordinanza internazionale per comunicare che non fossero percorribili a causa del caldo? Peraltro, sulle Alpi ci sono almeno una quindicina di ghiacciai decisamente più a rischio di quello della Marmolada, ben conosciuti e sotto monitoraggio: in casi del genere, la presenza di strumenti appositi che misurano il comportamento può consentire ai sindaci o alle prefetture di imporre dei divieti specifici fondati su dati certi; nel caso della Marmolada, però, parliamo di un ghiacciaio che non era sottoposto a monitoraggio e, quindi, soggetto soltanto a un rischio statistico medio.

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A livello di discussione generale, quello che è accaduto domenica potrà sensibilizzare, finalmente, quella porzione di opinione pubblica che non ha ancora familiarizzato con certi temi, sdoganando una volta per tutte la necessità di accelerare sulla riduzione delle emissioni inquinanti?
Non credo proprio: abbiamo già osservato notizie dal carico emotivo piuttosto gravoso come questa balzare agli onori delle cronache per qualche giorno, salvo poi svanire nel nulla; purtroppo, tra qualche settimana non ne parlerà più nessuno e, quindi, questa tragedia non avrà un effetto tangibile sui nostri comportamenti. La verità è che, se vogliamo prendere delle azioni efficaci contro il cambiamento climatico, ci vogliono delle scelte politiche coerenti che valgano per tutti, esattamente come accaduto nel caso della legge contro il fumo: dalla mattina alla sera è stato impedito di fumare nei locali pubblici, e il mondo ha cambiato volto in maniera repentina. Serve uno scossone del genere, perché non è più sufficiente contare soltanto sulla benevolenza di una parte di pubblico più sensibile: ci vuole una politica ecologica ed energetica più matura, quella annunciata in Europa dal Green Deal e, almeno per ora, fissata soltanto sulla carta.

Anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, questi impegni vengono contraddetti dalle politiche adottate a livello nazionale: accade anche in Italia, con il ministero della Transizione Ecologica che ha palesato più volte delle resistenze in merito alla possibilità di abbandonare immediatamente il gas per puntare sulle rinnovabili.
Esattamente, ci sono troppe contraddizioni. L’Ecobonus per la ristrutturazione energetica delle case sostanzialmente è stato boicottato, privando i cittadini italiani di uno strumento importantissimo, che avrebbe consentito di consumare meno energia nelle nostre case. Un altro esempio? L’Europa ha detto basta alla vendita di auto con motore termico a partire dal 2035, e l’Italia ha subito presentato una mozione di deroga pre procrastinare il termine al 2040. Di cosa stiamo parlando?

Recentemente ha fatto parecchio discutere il suo intervento a Carta Bianca, culminato nell’abbandono della trasmissione. Un siparietto triste che, però, è forse paradigmatico di un malcostume che accomuna una porzione consistente di informazione italiana, che purtroppo continua a trattare evidenze scientifiche e fatti incontrovertibili come opinioni legittimamente contestabili.
Il primo errore è pensare che, invitando un punto di vista “controcorrente” sul clima, si possa garantire un contraddittorio: così non è. Se la comunità scientifica è pressoché unanime (il consenso è vicino al 100%) nel sostenere che i cambiamenti climatici siano causati dalle attività degli esseri umani, per garantire la proporzionalità in studio dovrebbero essere presenti 99 scienziati a favore della tesi dell’origine antropica e un solo esperto contrario (anzi, un mezzo esperto, date le proporzioni). E invece, spesso, l’opinione scettica sul riscaldamento globale viene presentata come paritaria e pienamente legittima; non dovesse bastare, nella maggior parte dei casi lo scettico di turno invitato nei salotti non è neppure un esperto del settore o, addirittura, fa un altro mestiere. Mi cadono le braccia perché l’identico schema è stato riprodotto pochi minuti fa, mentre ero ospite della trasmissione L’Aria che tira, su La7. il mio intervento è stato seguito da quello di Franco Battaglia, noto negazionista climatico; per fortuna, però, non siamo stati messi in contraddittorio diretto. Un esempio che fotografa bene la situazione: l’abitudine di invitare personaggi di questo genere non accenna a morire. Siamo destinati a subire le conseguenze dei cambiamenti climatici, evidentemente.

Chi contesta il suo lavoro prova spesso ad affibbiarle l’etichetta di “catastrofista”: com’è nata questa narrazione?
Non saprei, io ho già difficolta a trovare una definizione lessicale della parola: stiamo parlando di un termine evocativo ma difficilmente definibile dal punto di vista del vocabolario. Chi sono, questi “catastrofisti”? Quelli che desiderano la catastrofe? Quelli che la prevedono? Quelli che la prevengono? Insomma, quello che faccio, io come tanti altri, si chiama semplicemente prevenzione.

I rapporti dell’IPCC sono uno strumento straordinario ma, allo stesso tempo, pochissimo accessibile per i non addetti ai lavori. Quali fonti possono essere consultate per avere un accesso meno traumatico a queste tematiche?
Per fortuna, le porte d’accesso non mancano: penso a Climalteranti, un sito di debunking che prova a smontare le bugie propagate da una certa nicchia. Il primo consiglio, però, forse anche il più banale, è quello di sforzarsi di consultare le fonti ufficiali: per esempio, a livello di governo l’ISPRA è una struttura affidabile. Anche le ARPA regionali ospitano un sacco di informazioni relative ai cambiamenti climatici e liberamente consultabili, che tengono conto anche delle specificità territoriali. Senza dimenticare l’importante attività del Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC), una grande struttura di ricerca che ci informa in modo costante su ciò che sta succedendo. Questa è una prima via da seguire, ovviamente, ma ce ne sono altre, come i libri divulgativi: io stesso ne ho scritti a frotte. In ogni caso, la qualità della fonte è il primo aspetto da tenere in considerazione.

Cosa risponde a chi tenta di minimizzare la situazione dicendo che, in fin dei conti, «i cambiamenti climatici ci sono sempre stati?»
Certo che ci sono sempre stati, ma decisamente più modesti di quello che stiamo vivendo noi ora: la crisi attuale non ha precedenti nella nostra civiltà, e questo è un fatto.

Come spiegherebbe il riscaldamento globale a una persona che non ne ha mai sentito parlare?
In un paio di secoli anni abbiamo ributtato nell’atmosfera quello che la natura, in milioni di anni, aveva tolto; e questa, ovviamente, è un’intossicazione.