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Luana D’Orazio è il simbolo di un’emergenza dimenticata

Dalla repubblica fondata sul lavoro, alla repubblica fondata sui morti sul lavoro: migliaia ogni anno, di cui non si parla mai, se non quella volta che a morire è una ragazza di 22 anni, mamma di un bambino di 5, con cui è facile empatizzare

Foto via Twitter

Aveva 22 anni, lavorava in un’azienda tessile della provincia di Prati. È morta in modo atroce dopo essere rimasta impigliata nel rullo della macchina con cui stava lavorando. Un collega ha dato subito l’allarme, ma non c’è stato nulla da fare. Quella di Luana D’Orazio, l’operaia morta il 3 maggio a Oste di Montemurlo, è l’ennesima storia agghiacciante di “morte bianca” in un Paese in cui, dall’inizio dell’anno, sono morte sul lavoro quasi due persone al giorno. Rimanendo spesso niente più che un trafiletto di cronaca locale. 

Nel caso di Luana D’Orazio, però, non è stato così. Vuoi per la sua giovane età, vuoi l’aspetto fisico nella foto usata da praticamente tutte le testate per dare la notizia della sua morte, vuoi per il dettaglio del suo essere mamma di un bambino di 5 anni,  in qualche modo il suo caso ha rotto quel muro di indifferenza che avvolge di norma il tema delle morti sul lavoro in Italia. Che – si potrebbe dire – avvolge in generale il tema del lavoro in Italia, al di fuori del terziario e dei servizi. 

Secondo dati Istat del 2018 ci sono 5 milioni di operai in Italia. Persone come Luana D’Orazio; come Mattia Battistetti, morto a 23 anni a Treviso la scorsa settimana dopo essere stato travolto da un’impalcatura; come Giorgia Sergio, 27 anni, morta lo scorso gennaio cadendo da una scala mentre faceva le pulizie in un bar di Calimera, vicino a Lecce. Eppure quando si pensa alla parola, “operaio”, ce li si figura 50enni, con la pelle scottata dal sole e la canottiera, magari stranieri. Magari sporchi di fuliggine, perché la parola stessa ci sembra un po’ novecentesca. 

Ci sono anche gli operai così, certo. Guardando i dati sui morti sul lavoro di anno in anno e leggendone le storie, ce ne sono di tutti i tipi, da quello in alternanza scuola-lavoro a quello che sarebbe già dovuto essere in pensione. Del resto è una questione di grandi numeri: solo nei primi tre mesi del 2021 ci sono state 182 denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale, l’11% in più rispetto al primo trimestre del 2020. Uomini e donne, di tutte le età (38 su 185 avevano più di 60 anni), italiani e non. 

Uno dei cuori del problema è il lavoro in nero: secondo gli ultimi dati, sono almeno 3,3 milioni le persone che in Italia lavorano senza contratto, in prevalenza in quelle piccole e medie imprese che tendono a tagliare sui costi anche quando vuol dire ridurre le condizioni di sicurezza fisica sul posto di lavoro. “Per me investire sotto effetto di alcol o droga una persona è tanto disdicevole e grave quanto sapere che un operaio sta a nero, non gli è stato dato un caschetto ed è stato mandato a lavorare sul tetto al quinto piano di un palazzo”, ha commentato in un’intervista con L’Espresso Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea Cgil.

Solo in casi rarissimi come quello di Luana D’Orazio queste morti diventano qualcosa di più che un articolo di due paragrafi sull’edizione locale di Repubblica o del Corriere, con foto e nome (quando va male, iniziali; quando va malissimo, solo un generico “operaio”, “agricoltore” o “bracciante”). Solo nel caso di Luana D’Orazio queste morti si trasformano in infografiche su Instagram che denunciano, per esempio, il fatto che nell’Italia del 2021 “si muore sul lavoro per le stesse ragioni e allo stesso modo di cinquant’anni fa”, come hanno scritto le sezioni di Prato dei sindacati Cgil, Cisl, Uil e Filctem. Ovvero: “per lo schiacciamento in un macchinario, o per la caduta da un tetto. Non sembra cambiato niente, nonostante lo sviluppo tecnologico dei macchinari e dei sistemi di sicurezza. È come se la tecnologia si arrestasse alle soglie di fabbriche e stanzoni, dove troppo spesso la sicurezza continua ad essere considerata solo un costo”.

Solo in questi rari casi, insomma, queste morti monopolizzano, anche se per poco, il dibattito pubblico italiano e i trending topic di Twitter, causando espressioni di cordoglio anche di chi – in teoria – avrebbe potuto fare qualcosa contro questa situazione: l’ex premier Conte, per esempio, secondo cui “l’alto numero di decessi sul lavoro non rende merito alla grande tradizione democratica del nostro Paese” che sui diritti del lavoro dovrebbe essere fondato.

La morte sul lavoro di Luana D’Orazio, una giovane mamma, è un evento tragico che non può lasciarci indifferenti….

Pubblicato da Giuseppe Conte su Martedì 4 maggio 2021

Così la morte di D’Orazio finisce per essere doppiamente tragica: alla sua tragedia personale e a quella della sua famiglia e dei suoi colleghi si aggiunge la tragedia di un Paese in cui la morte sul lavoro è percepita come qualcosa di normale, un doloroso prezzo da pagare, un “rischio calcolato”  e che si riesce a mettere temporaneamente in discussione questa realtà solo quella rara volta che a morire è una ragazza giovane, bella e con un bambino piccolo. Come se con Flamur Alsela, operaio 50enne morto la scorsa settimana nel nuovo centro di smistamento Amazon di Alessandria, o con Vito Gravina, agricoltore 63enne morto a febbraio vicino a Ragusa, non si riuscisse a empatizzare abbastanza. 

Il gran clamore mediatico sul caso di D’Orazio dimostra che se manca anche questa empatia è come se queste morti non esistessero nemmeno. Dal punto di vista istituzionale tutto tace,  nonostante da anni i numeri delle morti sul lavoro in Italia continuino a superare il migliaio. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, istituita teoricamente nell’ottobre 2019 al Senato, non solo non si è mai riunita ma non è mai nemmeno stata costituita – come ricorda oggi la senatrice ed ex sindacalista Valeria Fedeli. E quando un anno fa la deputata PD Chiara Gribaudo aveva chiesto di assumere 10 mila ispettori del lavoro per assicurarsi che le aziende rispettassero le misure di sicurezza e le disposizioni necessarie a proteggere i propri dipendenti dal Covid, era stata accusata di trattare gli imprenditori come “scolari birbanti, quelli dell’ultimo banco che, appena ti giri, fanno volare gli aeroplanini”.

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