Lorenzo Guadagnucci: 20 anni dopo Genova, «le forze di polizia italiane hanno una malattia interna» | Rolling Stone Italia
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Lorenzo Guadagnucci: 20 anni dopo Genova, «le forze di polizia italiane hanno una malattia interna»

Secondo il giornalista, che nel 2001 fu tra le vittime della scuola Diaz, negli ultimi 20 anni per quanto riguarda le violenze della polizia italiana non è cambiato praticamente niente

Lorenzo Guadagnucci: 20 anni dopo Genova, «le forze di polizia italiane hanno una malattia interna»

Dal 18 al 22 luglio Genova ospiterà Genova ’01. 20 anni dopo, cartellone di conferenze, tavole rotonde, libri, mostre, installazioni artistiche, spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche, più un cammino urbano da Bolzaneto al centro cittadino, attraverso i luoghi simbolo del G8 del 2001. Ci sarà anche Lorenzo Guadagnucci, giornalista, tra i promotori del Comitato Verità e Giustizia per Genova, che la notte del 21 luglio di 20 anni fa si ritrovò tra le vittime del violento blitz poliziesco alla scuola Diaz, esperienza traumatica che ha raccontato nel libro Noi della Diaz.

A Genova presenterà, il 19 luglio alle 16 presso Music For Peace (via Balleydier 60), la nuova, aggiornata edizione del saggio scritto con Vittorio Agnoletto L’eclisse della democrazia (Feltrinelli). Mentre mercoledì 21 sarà tra i relatori della conferenza “Genova 2001. Quali lezioni abbiamo appreso”, a cura di Amnesty International Italia. Appuntamenti che s’inseriscono in un percorso di attivismo e impegno civile che dal giorno del pestaggio che l’allora vicequestore Michelangelo Fournier definì da “macelleria messicana” hanno visto Guadagnucci sostenere ripetutamente, dentro e fuori dai tribunali, la necessità di “una riforma di sistema delle forze di polizia italiane”. “Credo sia sempre più urgente”, dice oggi, sottolineando ancora una volta che “nel 2001 ci fu una caduta di legalità costituzionale e per alcuni giorni l’abuso di potere fu la regola, non l’eccezione”.

Ricordare è doloroso, ma non ci si può tirare indietro. Specie per chi ora ha più o meno l’età che aveva Carlo Giuliani quando, a 23 anni, in piazza Alimonda, morì dopo essere stato colpito allo zigomo da un proiettile partito dalla pistola di un carabiniere ausiliario, Mario Placanica, di due anni più giovane. L’immagine del suo corpo steso a terra in una pozza di sangue è diventata drammaticamente il simbolo di quel G8, ma l’uccisione di Giuliani non fu che uno dei tragici epiloghi delle manifestazioni di cui quest’anno si celebra il ventennale.

“Le violenze di piazza furono plateali, riprese dalle televisioni e dai video di mezzo mondo, e le torture furono praticate su centinaia di persone, fra la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto”, dice Guadagnucci. “Senza dimenticare quella sorta di festival del falso in atto pubblico cui si è assistito in quei giorni e successivamente: era falso dalla prima all’ultima parola il verbale di arresto nel caso della scuola Diaz, ma anche in tantissime altre azioni di piazza, arresti e fermi i verbali si sono rivelati falsi. In quel luglio l’attitudine alla menzogna fu evidente”.

Non è più il momento, oggi, di ripercorrere nel dettaglio quanto accaduto. Lo stesso Guadagnucci e molti altri hanno contribuito con testimonianze, video e il materiale più variegato alla ricostruzione degli eventi nei contesti più diversi. E per chi ancora non conoscesse le vicende la documentazione è ricca: si va dal documentario di Francesca Comencini Carlo Giuliani, ragazzo, del 2002, al nuovo (ottimo) podcast di Internazionale Limoni. Ma nel ventennale del summit di Genova, durante il quale i manifestanti del movimento che si batteva contro la globalizzazione neoliberista furono più e più volte caricati da polizia e carabinieri, sono molte le domande che restano aperte e una riguarda indubbiamente le forze dell’ordine: che cosa si è fatto per evitare che quanto successo a Genova nel 2001 non avvenisse più?

Secondo Guadagnucci “non c’è stata una risposta adeguata”. Non c’è stata perché “le forze dell’ordine non hanno voluto responsabilizzarsi, rendere conto davvero del proprio operato, né indagare sulle ragioni, su come sia stato possibile che così tanti agenti abbiano compiuto così tante azioni contrarie alla legge e sul perché – e non è un dettaglio – non si sia levata, da parte delle forze dell’ordine medesime, quasi nessuna voce di denuncia e di rifiuto del clima di omertà che durante il G8 di Genova è stato la regola”.

E ancora: “Tutto questo si somma a una serie di episodi susseguitisi in questi 20 anni che ci confermano che le forze di polizia italiane hanno una malattia interna, un’attitudine a compiere azioni violente e a nasconderle che non può essere sottovalutata. Proprio in queste settimane abbiamo visto le immagini riprese e diffuse degli abusi perpetrati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: potremmo proporle in simultanea con il racconto di quanto avvenuto nella caserma di Bolzaneto nel 2001 e nessuno si accorgerebbe della differenza. Le scene degli agenti che disposti in due file creano un corridoio in cui fanno passare i detenuti picchiandoli e colpendoli con manganellate, calci e sputi sono perfettamente coerenti con quanto riportato da tanti testimoni e vittime che a Bolzaneto dovettero passare per il cosiddetto “comitato di accoglienza”. Ripeto, non si può più aspettare, urgono una nuova democratizzazione delle forze dell’ordine, un’apertura alla società civile, una revisione e una pubblicizzazione dei criteri di selezione e formazione degli agenti, oltre a un ricambio generazionale nelle posizioni apicali. Invece in campo resta solo una proposta, quella dei codici di riconoscimento sulle divise, misura importante ma, come dire, minima”.

Ricorre alla parola “umiliante”, il giornalista toscano, classe ’63, per definire il fatto che “in due decenni la politica non si è interessata a tutto questo”. “Eppure – rammenta a proposito di una normativa già introdotta in quasi tutta Europa, a eccezione di Italia, Austria, Cipro, Olanda e Lussemburgo – il primo a indicare come urgente l’introduzione del numero di riconoscimento per le forze dell’ordine fu Pippo Micalizio, un funzionario di polizia, uomo di fiducia di Gianni De Gennaro – ossia di colui che era a capo della polizia nel 2001 – il quale dopo l’irruzione alla Diaz fu inviato dallo stesso De Gennaro a fare un’indagine interna. Ebbene, nel rapporto che ne scaturì Micalizio affermò che servivano interventi immediati volti alla sospensione dall’incarico di tutti gli agenti implicati, la destituzione dalla polizia del capo del VII Reparto mobile di Roma che era entrato per primo nella scuola Diaz, oltre, appunto, a una legge che rendesse obbligatorio il codice identificativo sulle divise. Perché era chiaro che quanto successo era potuto avvenire anche perché ogni agente sapeva di non poter essere identificato, così come dovrebbe essere chiaro, ma forse non è lo ancora per tutti, che quella possibilità di identificazione non è una protezione solo per i cittadini, ma anche per gli agenti che, per esempio, volessero sottrarsi a ordini aberranti”.

Un altro aspetto della questione riguarda la gestione delle manifestazioni di piazza, che non sono e non dovrebbero mai essere ridotte unicamente a un problema di sicurezza e ordine pubblico. “A Genova fu scelta una sorta di militarizzazione della piazza e questo nei mesi precedenti al G8, quindi a prescindere. Il movimento per la giustizia globale, come sappiamo, fu affrontato con diffidenza e ostilità da parte della politica tutta e dei governi e inserito in un racconto che lo descriveva come una forza capace di portare disordine e violenza, tant’è che la polizia impiegò anche numerose forze speciali specializzate in operazioni di tipo diverso da quelle solitamente messe in campo in occasione di manifestazioni e cortei. Una strada sbagliata, anche perché in un regime democratico compito delle forze dell’ordine è di garantire la piena espressione di tutti i diritti affermati dalla Costituzione. Se storicamente le polizie sono state al servizio del re, erano il suo braccio armato, servivano a combattere gli avversari del sovrano in contrapposizione al popolo che rivendicava la democrazia rispetto all’autocrazia, l’evoluzione che abbiamo avuto, per fortuna, in direzione democratica ha cambiato il loro ruolo e senso: le forze di polizia non sono più uno strumento del potere, non possono più essere questo, devono essere uno strumento di garanzia della legalità costituzionale. E di questa fanno parte anche i diritti di libertà e di manifestazione del dissenso, di espressione politica, il che significa che in una manifestazione come quella che si tenne a Genova nel 2001 la polizia doveva anche proteggere il summit in corso, sì, ma garantendo al contempo la piena espressione della libertà di pensiero. Questo non avvenne e, anzi, i continui attacchi ingiustificati ai cortei, l’uso sproporzionato della violenza e le torture praticate furono messi in atto al di fuori della legalità costituzionale. Ed è molto grave che le nostre forze di polizia non abbiano saputo rinnegare quegli errori e abusi”.

Il punto è che ogni volta si parla di mele marce e la politica tende ad avallare questa teoria. “Una volta Luigi Manconi, a proposito del rapporto tra politica e forze dell’ordine, disse che la prima ha una sudditanza psicologica nei confronti delle seconde”, commenta Guadagnucci. “Prese questa espressione – sudditanza psicologica – dal linguaggio giornalistico sportivo: con quelle parole Gianni Brera si riferiva all’atteggiamento degli arbitri nei confronti delle grandi squadre di calcio. Io sono d’accordo con questa visione: la politica ha un rapporto ambiguo con le forze dell’ordine, per cui nel corso del tempo, pur col cambiare di governi e maggioranze, ha sempre cercato una relazione di complicità e vicinanza con i vertici delle medesime, in modo da assicurarsi una stabilità, una legittimazione reciproca dove, però, il soggetto forte sono le forze dell’ordine. Sarebbe, invece, compito dei governi disciplinare il funzionamento di queste ultime, dettare le regole del gioco, intervenire in caso di devianze e deficit evidenti. Ma questa funzione non è stata esercitata nemmeno dopo i fatti del 2001: abbiamo visto agire un tabù che fa sì che si intervenga sull’operato delle forze dell’ordine solo in presenza di una sorta di placet dei loro vertici”.

Il timore, ora, è che “anche per i codici identificativi sulle divise si agirà solo quando i vertici lo vorranno e nel modo in cui lo riterranno adeguato. È già andata così con la legge sulla tortura, avversata per decenni e infine approvata – anche sulla scia delle gravi sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo sulle vicende Diaz e Bolzaneto – ma approvata seguendo le indicazioni delle stesse forze dell’ordine, le quali hanno preteso un testo diverso da quello standard internazionale. Un testo così pieno di contraddizioni che alla vigilia dell’approvazione della legge i magistrati che si sono occupati di quei due casi scrissero ai parlamentari per far notare che quel testo così contorto probabilmente sarebbe stato inapplicabile, se fosse stato in vigore prima del 2001: un paradosso”.

Sul tavolo c’è anche un tema, quello dell’indipendenza dell’informazione, che era stato definito centrale proprio da quel movimento che a Genova fu represso e criminalizzato. “Un tema difficile da affrontare nel 2001 e forse ancora più complicato da affrontare oggi. Un’informazione libera, indipendente, quella che il movimento rivendicava individuando il conflitto d’interesse tuttora irrisolto tra i grandi media e il potere politico, ma soprattutto economico, è ancora una conquista da raggiungere. Il movimento all’epoca aveva invitato a uscire dal cono di diffusione delle maggiori testate e a creare altri media, proponendo un modello d’informazione indipendente e addirittura autogestita: lo slogan era diventa tu un media. Ci fu l’esperienza di Indymedia che in qualche modo raccoglieva quest’istanza, pur con tutte le problematiche legate a un’attività spesso spontanea, difficile da controllare, con dei limiti anche di ordine professionale. Adesso è tutto ancora più complesso, l’esplosione di Internet e dei social media ha dato vita a un pluralismo ancora maggiore, ma anche a una confusione più ampia: è dura orientarsi tra le notizie, per cui alla fine le testate storiche, per il loro marchio, rimangono le più affidabili, ma con tutti i limiti irrisolti di cui sopra. Non so quale sia la via di uscita; una strada che il movimento aveva proposto, ma poi poco praticata, era quella di un consumo critico dell’informazione, parallelo e similare al consumo critico delle merci. E però forse ci vorrebbe qualche pista da seguire per fornire quantomeno gli strumenti del mestiere a chi si ritrova a navigare in un mondo pieno di informazioni, ma in cui è difficile distinguere il buono dal non buono. E serve che ciascuno compia uno sforzo per selezionare le fonti d’informazione più interessanti, ma verificandone la credibilità, il che significa scavare per capire cosa c’è dietro a ognuna di quelle fonti e in che modo le notizie sono presentate a chi legge, ascolta, guarda”.

Ma che cosa lasciano nel cuore di un giornalista pestaggi e abusi come quelli subiti da Guadagnucci? “L’esperienza alla scuola Diaz è stata per me sconvolgente, mai e poi mai mi sarei immaginato di vedere dei dipendenti dello Stato comportarsi in quel modo, picchiare e manganellare delle persone in maniera così selvaggia e incontrollata, fino ad assumersi il rischio di ammazzare qualcuno. La mia reazione immediata è stata di cercare di comprendere, anche cercando un dialogo con la polizia e i suoi sindacati, ho organizzato non so quanti incontri invitando rappresentanti delle forze dell’ordine, per esempio alla presentazione del mio libro Noi della Diaz. Questo varco sembrava si fosse aperto, sembrava possibile ragionare insieme per trovare una soluzione, però poi la porta si è chiusa piuttosto rapidamente, è stata sprangata direi. E da cittadino mi rimane l’amarezza nel vedere che i vertici di polizia – sostanzialmente lo Stato, con l’eccezione di alcuni magistrati e giudici che hanno seguito i processi Diaz e Bolzaneto, ma con tutti i limiti di una normativa inadeguata a punire i reati commessi – non hanno ripudiato quei fatti. Non li ho mai sentiti dalla mia parte e con mio rincrescimento me li sono ritrovati come avversari nei tribunali e fuori. Il succo del mio punto di vista personale, privato, è che il mio senso di cittadinanza è stato menomato e tale resta: non mi sento più un cittadino con tutta la forza e la potenza che escono dal testo della nostra Costituzione, che a Genova ha subito un brutto colpo senza che la ferita inflitta sia stata mai sanata”.