L’odio crea consenso politico, e ne siamo tutti complici | Rolling Stone Italia
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L’odio crea consenso politico, e ne siamo tutti complici

Facebook mette al bando 23 pagine della ragnatela di fake news gialloverde. La democrazia si sta guastando sotto i nostri occhi ed è tempo di affrontare la questione, che riguarda tutti noi e i nostri pregiudizi

L’odio crea consenso politico, e ne siamo tutti complici

Una ragnatela dalla trama fittissima, da cui, a meno tu non sia il ragno, è quasi impossibile uscire vivi. Oggi nella Rete sono finite le democrazie occidentali, intrappolate dai loro stessi principi di libertà e dalle distorsioni dettate dai nuovi strumenti tecnologici. Una storia ormai nota, visto che dall’elezione di Donald Trump in poi ogni tornata elettorale è risultata condizionata da tentativi di “sabotaggio” digitale.

Un nuovo caso è emerso in questi giorni, come gli esperti avevano previsto con l’avvicinarsi delle elezioni europee. Ieri – dopo la segnalazione della ong Avaaz – Facebook ha annunciato la chiusura di 23 pagine italiane che diffondevano “notizie false e contenuti d’odio, in violazione delle regole della piattaforma”. I loro nomi erano del tipo “Vogliamo il movimento 5 stelle al governo” oppure “Lega Salvini Premier Santa Teresa di Riva”. L’ennesima riprova che l’abbraccio gialloverde non è stato figlio di una contingenza numerica in parlamento, ma che trova una base di appoggio solida in una vasta fascia di popolazione e in un abile gruppo di manipolatori. 

Quelle bannate erano pagine non ufficiali, ma capaci di raggiungere una platea enorme: ben oltre i 100mila follower ciascuna e prossime ai 2milioni e mezzo nel complesso. Spesso i loro contenuti diventavano virali, soprattutto quelli più “inquinanti”. Dai loro canali sono state lanciate teorie del complotto e fake news assortite, dalle false dichiarazioni su Saviano a favore dei rifugiati a un video taroccato in cui dei migranti distruggono un’auto dei carabinieri. Assurdo, vero, che qualcuno ci creda? Ma lo fanno in migliaia di persone. E magari lo abbiamo fatto anche noi, anche se non ce ne ricordiamo (per quella vecchia storia dei bias di conferma).

Donald Trump To CNN Reporter: You Are Fake News | CNBC

«In teoria sappiamo tutti come combattere le fake news. In pratica nella società dell’informazione, con i suoi ritmi iper-veloci, nessuno lo fa», spiega Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università di Milano. «Valutare attentamente le fonti, cercare una o più conferme, non condividere notizie dubbie: sono regole di base, puro buon senso. Ma con tutti gli impulsi a cui siamo sottoposti non le applichiamo, la meditazione sui contenuti è ridotta al minimo». Così diventiamo parte del problema, e anche una barzelletta di quart’ordine quando “Lega Salvini Premier Santa Teresa di Riva” può diventare un player sullo scenario politico.

«Poi c’è il problema della profilazione», aggiunge Ziccardi, che, dopo il Libro digitale dei morti – in cui analizzava i rischi connessi alla sopravvivenza alle nostre morti delle nostre eredità digitali – ora ha pubblicato per Raffaello Cortina Tecnologie per il potere – Come usare i social media in politica, in cui dedica ampio spazio allo studio di “sistemi paramilitari di disinformazione” molto simili a quelli bloccati in questi giorni. «Così si creano delle bolle, in cui ti arrivano solo le notizie che vuoi ricevere e ogni pregiudizio viene confermato. Il primo a capire questa dinamica è stato Trump: nel giro di una manciata di anni si è passati dall’uso “di contatto” della Rete che faceva Obama, alla sua opera massiccia profilazione. Un cambio di rotta drastico, che mostra bene con quale rapidità si muovano le tecnologie. In questo senso le elezioni Europee segneranno indubbiamente un nuovo capitolo nella storia del condizionamento della politica».

Il digitale pare in grado di alterare gli equilibri democratici con estrema facilità. Qualcosa di impensabile fino a pochi anni fa, quando la Rete era vista soltanto come uno strumento per migliorare la qualità della rappresentanza. «Il concetto stesso di politica è mutato», dice Ziccardi. Che individua in Donald Trump, ancora una volta, l’uomo della svolta. «La prima persona che ha assunto, quando si è candidato a presidente degli Stati Uniti, è stato un esperto di marketing. Aveva intuito che i vecchi profili, dai portavoce ai quadri usciti dalle scuole di politica, non erano più adatti. Al contrario servivano data scientist, analisti marketing, esperti di social, persino hacker. Così ha costruito la sua fortuna».

Che provenga dall’alto oppure dal basso, il contagio si estende quasi inarrestabile. «Se un nostro rappresentante, soprattutto quelli più in vista, diffonde quello che definisco “odio politico istituzionale”, è difficile che un cittadino comune possa opporre resistenza. La lotta è asimmetrica, anche perché i media, l’altro pilastro su cui si basa una democrazia, a loro volta rilanciano notizie suggestive, false o contenuti d’odio per vendere di più. Sono valute, da spendere subito».

Siamo arrivati al paradosso per cui, mentre contribuiamo al disastro, ci dobbiamo affidare a piattaforme private per risolvere i nostri guai. Anche se sono in parecchi, al di là della cronaca recentissima, a pensare che lo slogan “Fix Facebook” sia in realtà uno slogan vuoto, e che abbandonare la baracca sia l’unica soluzione possibile. «Il social di Zuckerberg ha assunto un’importanza pubblica sconfinata», conclude il professor Ziccardi. «Ma bisogna sempre valutare la vastità e la complessità della piattaforma. Facebook è presente in quasi tutto il mondo e non ha potuto che darsi delle regole universali, con la promessa poi di fare singoli aggiustamenti a seconda delle contingenze locali. Ma pensiamo a quante segnalazioni arrivino ogni giorno e, soprattutto, al fatto che la moderazione debba per forza essere il più automatizzata possibile, con tutte le storture che comporta. Inoltre la filosofia di fondo è quella nordamericana del Primo Emendamento, ed è impensabile che cambi a seconda della giurisprudenza di ogni singolo Paese. A volte le cose funzionano – come nel recente ban –, ma spesso no».