Rolling Stone Italia

L’Italia è una repubblica fondata sul classismo

Dall'alto si insultano "bibitari" e "cameriere di volo", dal basso "giornalai" e "politicanti". Le classi sociali non esistono più e il lavoro è quasi estinto, eppure non troviamo di meglio che svilire l'opera altrui e alimentare il tutti contro tutti

Foto: Getty Images

Le classi sociali non esistono più, ci raccontano ogni giorno, sommerse dalla crisi del mondo occidentale, dall’impoverimento del ceto medio (e dall’arricchimento di quello altissimo), dalla proliferazione delle partite iva coatte prima e dall’esplosione dell’economia dei lavoretti poi. Più in generale, verrebbe da dire, in Italia non esiste più il lavoro, a giudicare dai dati che ci vogliono ai primi posti tra i Paesi europei con il tasso di occupazione più basso. O meglio, di certo non esiste più il lavoro per come lo conoscevamo.

Eppure, anche senza più classi né lavoro, il classismo in Italia è più vivo che mai. E rinnova ogni giorno la sua ricca e gloriosa tradizione. Solo negli ultimi giorni, senza fare particolare sforzi di ricerca, si possono mettere assieme diversi esempi. Ad accendere la bagarre sono state Paola Taverna e Maria Elena Boschi, rispettivamente vicepresidente del Senato in quota 5 Stelle e deputata Pd ed ex ministra per le Riforme. Dopo una critica di quest’ultima al reddito di cittadinanza, con cui invitava il governo a concentrarsi sulla richiesta dell’ad di Fincantieri di trovare “6mila ragazzi per fare lavori manuali, come il saldatore”, Taverna ha risposto così su Twitter: “Le consiglio di inviare il cv come saldatrice”. “Io faccio l’avvocato. Ma non troverei nulla di male a fare il saldatore”, ha ribattuto la Boschi, facendo per una volta la figura da gigante. 

Poco dopo, a parti invertite, è toccato al deputato democratico Luigi Marattin dare per la millesima volta del “bibitaro” al vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, “reo” del suo trascorso da venditore di cibo e bevande sugli spalti dello stadio San Paolo di Napoli. Quello del “bibitaro”, in realtà, è un coro cui si accoda una larga fetta del partito guidato da Nicola Zingaretti. Simpatico, vero?

Infine, ecco Salmo, che lo scorso fine settimana, in mezzo al suo interminabile tour estivo, ha postato una storia su Instagram in cui accusava una hostess Alitalia di non averlo voluto aiutare con il bagaglio a mano, nonostante il ginocchio a pezzi con cui da settimane va in giro a esibirsi. Capiamo bene quanto girino le palle in questi casi, ma, considerata la potenza di fuoco di cui gode sui social il rapper, additare una persona con nome e cognome non è decisamente il massimo. E ancora peggio ha fatto nella storia successiva, quando ha aggiunto: “Scusate, si scrive hostess si legge cameriera di volo”.

E si torna sempre lì: allo svilimento del lavoro altrui, alla gerarchizzazione delle professioni con più o meno dignità. Perché il “caro inferiori” su cui Fantozzi ha costruito tutta la sua epica è nel profondo del nostro DNA collettivo, non solo in quello di politici, artisti o personaggi in vista. Ogni occasione è buona per mostrarlo al mondo, soprattutto quando parte una miccia in grado di tirare fuori il peggio di noi. Il caso più clamoroso degli ultimi anni è quello del reddito di cittadinanza, attorno a cui gli avversari del Movimento 5 Stelle hanno costruito un’autolesionista e insopportabile retorica, quella secondo cui cui sarebbe il rifugio dei fannulloni.

Le distorsioni, scoperte o meno, ci sono senza dubbio, e il provvedimento fa acqua da ogni foro, ma l’idea che una parte politica possa pensare e dire – magari non apertamente, ma questa è la sostanza – che la povertà è una colpa, dà perfettamente il segno dei tempi. Anche perché loro, in teoria, sarebbero quelli di sinistra, per cui figuriamoci gli altri. Da qui nasce l’equivoco atroce del sovranismo, che in giro per l’Europa e il mondo può raccontarsi come forza di tutela dei più umili (a meno che non siano stranieri), mentre coloro che come vocazione storica dovrebbero stare dalla loro parte li prendono per il culo perché non trovano un lavoro o ne hanno uno non esattamente esaltante.

Ma, essendo questi i tempi della “guerra di tutti” – per citare l’ultimo libro di Raffaele Alberto Ventura –, il classismo non è unidirezionale, esclusiva delle stronzissime élite nei confronti dei “sottoposti”. No, perché ormai da tempo la catena della mortificazione dell’opera altrui funziona molto bene anche dal basso verso l’alto: quando conquistiamo un po’ di democrazia, insomma, ci premuriamo che sia deteriore.

Il classismo al contrario, germogliato con il libro La casta, è un vento fortissimo in questo Paese. Pensiamo a cosa ha subito la professione del cronista – che di colpe ne ha a miliardi –, con i giornalisti che ormai quotidianamente vengono chiamati “giornalai” (ma perché dovrebbe essere un’offesa?!) o “pennivendoli”. O gli intellettuali più in generale. E i politici divenuti “politicanti”. E i magistrati. O chi lavora in banca.

Sempre più di frequente si è giudicati per cosa si fa, non per come lo si fa. Che comunque non va bene, perché sei un nemico del popolo. Lo stesso che si sente chiamare “bibitaro” o “cameriere di volo” ogni giorno e reagisce con la stessa arma di chi lo insulta, che però ci sta esplodendo in faccia a tutti.

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