“In quarantena avete goduto di TV, Netflix, musica, libri…dietro ci siamo noi”.
L’assenza spettacolare è il titolo della manifestazione che oggi ha viaggiato sul filo di tutte le più grandi città italiane e che ha cercato di raccontare il disagio di questo momento. Una manifestazione inevitabile, anche se sarebbe stato meglio fosse più trasversale, che si oppone alle decisioni del Dpcm di ottobre che ha sospeso fino al 24 novembre ogni spettacolo dal vivo, nonostante, dati alla mano, su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli tra lirica, prosa, danza e concerti, si sia registrato un solo caso di Covid-19, in un periodo che va dal giorno dopo la riapertura dal lockdown ad oggi. I dati sono Agis. Ad ogni modo, incredibile, no? Tutto così lampante da far sorgere il dubbio di essere ancora fermi al “con la cultura non si mangia”, quando invece era il lontanissimo 2010, con Bondi al Ministero per i Beni e le attività culturali e Tremonti all’Economia. Ma nel frattempo di anni ne sono passati quasi 11, anche Conte è riuscito a fare la sua gaffe parlando dei lavoratori dello spettacolo come “quelli che ci fanno tanto divertire” e un virus ha impestato il pianeta, impantanando tutto.
Tanto l’emergenza sanitaria, quanto quella intellettuale sollevano quindi un tema semplice, quasi banale, ma ancora fortemente in discussone: il sistema culturale, in Italia più che in altri paesi civili d’Europa, come Francia e Germania, è vissuto dal governo e da una parte della popolazione senziente come inutile, ai limiti del superfluo a tal punto da venire persino appellato e inquadrato in modo erroneo, spesso associato all’intrattenimento. Tutto questo nonostante in Italia ci sia l’industria di cinema tra le più importante al mondo e si legga abbastanza, anche se a dire il vero il tasso di analfabetismo funzionale è del 47%. Mica poco.
Anche per quegli analfabeti quindi, che sarebbero forse un altro tema su cui dovremmo scendere in piazza insieme al mondo della scuola, del sistema culturale bisogna cambiare la narrazione. Non arrenderci alla perdita di una vita più piena – come solo l’arte può – ma anzi tenercela stretta assecondandone il mutamento delle modalità di fruizione: la reinvenzione dei luoghi, da reali a virtuali, per continuare a praticare “bellezza” e produrre contenuti, è un processo già in atto, a questo punto sarebbe auspicabile trovare il giusto compromesso per studiarlo meglio, riorganizzarlo. Per farlo diventa urgente la riorganizzazione del sistema di diritto del lavoro all’interno degli ambienti dell’immateriale.
Bisogna ricostruirne le fondamenta, pare, se il governo crede siano sufficienti mille euro una tantum che, alla maggior parte di quei lavoratori autonomi, con contratti inesistenti e professionalità spesso nemmeno correttamente identificate (alcuni dei quali aspettano ancora il bonus di maggio scorso) sono come elemosina. Così bisogna esigere di competere con i sistemi di garanzia francese o spagnolo, entrambi operativi dal primo minuto sul garantire ai lavoratori autonomi un sussidio onesto e per un periodo congruo, così come in altri paesi.
Fa bene U.N.I.T.A, la nuova associazione di attrici e attori che tutela la dignità professionale dei propri adepti, ad aver proposto ai teatri di adottare il comma 5 dell’art. 19 del contratto nazionale del lavoro, che garantisce agli attori la paga anche in caso della cancellazione e non la minima sindacale per pochi giorni. In gioco c’è l’esistenza di un intero mondo, di una macchina fatta di compagnie, orchestre, gruppi e singoli artisti, senza i quali non si produrrebbe più “tutto quello che ci fa tanto divertire”.