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L’arresto di Battisti non serve a nulla, se non facciamo i conti con il nostro passato

Giorgio Bazzega, figlio di un poliziotto ucciso dalle BR, esce dal coro di felicitazioni per la fine della latitanza dell'ex terrorista. Perché le ferite degli Anni di Piombo potrebbe risanarle solo lo Stato, e certi linguaggi sono contro i nostri valori
L'arrivo di Cesare Battisti in Italia dopo l'arresto in Bolivia. Foto: Piero Tenagli

L'arrivo di Cesare Battisti in Italia dopo l'arresto in Bolivia. Foto: Piero Tenagli

Mentre scriviamo l’ex terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo è da poco sbarcato a Ciampino, per essere trasportato nel carcere di Rebibbia. Deve scontare l’ergastolo per due omicidi commessi in prima persona e due in concorso con altri, la sentenza è diventata definita nel 1991. Dopo la condanna non ha mai passato un solo giorno in galera in Italia, ha vissuto da latitante o da protetto – da governi e mondo intellettuale – in Messico, in Francia e Brasile. Fino alla cattura in Bolivia.

Nella loro edizione serale, ieri, TG1 e TG2 hanno dedicato circa 15 minuti e almeno 5 servizi a testa all’episodio. Figura centrale della vicenda – oltre al figlio di una delle vittime, Alberto Torregiani – il ministro degli Interni Matteo Salvini – reduce dai post di celebrazione del libertario De André -, intervistato da quasi tutte le emittenti. Il plauso per l’arresto è stato unanime. Per tutto il fine settimana appena concluso il dibattito sulla figura del rapinatore diventato terrorista e poi scrittore – tutt’altro che una figura centrale degli anni ’70, e molto più celebre nella sua vita da “fuggitivo” – è stato ininterrotto, i toni spesso eccitati. Questa mattina è stata la volta dell’arrivo in aeroporto, con tanto di palchi d’onore e dirette web. L’esibizione di un trofeo, la giusta vendetta finalmente compiuta dallo Stato.

Qualcuno, però, sente il bisogno di uscire dal coro. Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo dell’antiterrorismo Sergio, ucciso nel 1976 dal brigatista Walter Alasia durante l’irruzione nella sua abitazione di Sesto San Giovanni. Negli anni Giorgio, che all’epoca aveva due anni e mezzo, ha fatto molto discutere per aver organizzato alcune iniziative pubbliche assieme ad ex terroristi, fino a definire “amico” Franco Bonisoli, membro del gruppo di fuoco che rapì Moro, e a dare vita a un gruppo di confronto assieme ad altri famigliari di vittime ed ex protagonisti della lotta armata come Mario Ferrandi e Adriana Faranda, un’esperienza da cui è nato il “Il libro dell’incontro”, edito dal Saggiatore. «Il dibattito di questi giorni mi ha fatto stare male, non impariamo mai nulla», esordisce al telefono.

Cosa ti turba di questo nuovo capitolo della vicenda Battisti?

Che, ancora una volta, sia stato messo in piedi un circo Barnum in cui si vuole a tutti i costi vedere la vittima che piange di gioia perché hanno preso l’assassino, rimanendo fedele al suo ruolo di vittima, mentre i politici si battono il petto. Al nostro Paese manca da sempre una riflessione seria e obiettiva sulla propria storia: non l’abbiamo fatta nel Dopoguerra, non l’abbiamo fatta dopo gli Anni di Piombo. E così le cose ciclicamente ritornano.

Andiamo con ordine. Che sensazioni ti dà il fatto che Battisti finisca in carcere?

Sono felicissimo che sia stato preso. Battisti ha fatto delle cose terribili ed è sempre scappato dalle proprie responsabilità, inventandosi di tutto pur di ricrearsi un’immagine completamente falsa. Non credo minimamente alla sua innocenza, al fatto che i processi fossero sbagliati perché basati solo sulle dichiarazioni di un pentito (alla non colpevolezza di Cesare Battisti, che gode di una “fanbase” limitata ma molto convinta all’estrema sinistra, sono dedicati numerosi articoli e studi. Tra le analisi “altre” più interessanti in materia, si consigliano Wu Ming e il libro di Giuliano Turone, ndr).

Perché, secondo te, tutto ciò che lo riguarda ha avuto un’eco mediatica simile?

Il suo atteggiamento ha di certo influito. Con l’arroganza di chi farebbe incazzare anche Gandhi, si è sempre fatto passare per vittima. I suoi brindisi a favore di camera, con dei morti di mezzo, sono insopportabili. Ma il cancan mediatico che si è scatenato attorno a lui è pazzesco, perché è una mezza sega. L’unica cosa importante che ha fatto nella sua vita è stato ammazzare della gente, non ha mai fatto nulla per la lotta armata. Era un criminale comune, che, finito in galera, ha capito che poteva trarre dei benefici dal “ruolo” di criminale politico. Faceva parte della seconda ondata dei brigatisti. La prima era più ideologica, la seconda più eterogenea, composta anche da delinquenti classici, utili alla causa soprattutto per le rapine di finanziamento. Battisti era uno di loro, e valeva zero.

Cosa ti auguri che gli accada ora?

Deve scontare la sua pena, ma io non sono favorevole all’ergastolo. Le persone, in quanto tali, nella vita cambiano, anche chi ha commesso i peggiori crimini. Non è corretto cristallizzare le loro esistenze all’errore che hanno commesso. L’articolo 27 della Costituzione, voluto fortemente da Aldo Moro, parla del carcere e della sua funzione di rieducazione – quindi recupero – nella società del reo. L’ergastolo ha persino dei margini di incostituzionalità. Non è buonismo, per usare un termine odioso, è una questione sociale: dove si fanno operazioni di recupero dei carcerati la recidiva crolla al 20-25%, altrove è all’80%.

Vederlo dietro le sbarre, dicevi, non risolverà alcun conto aperto.

No. Perché se ci sono ancora delle cose da dire su quegli anni, le deve dire lo Stato. I terroristi hanno detto tutto, e chi ha taciuto è stato scoperto. Inoltre non è vero che non c’è una verità sulle stragi, quella di piazza Fontana o di piazza della Loggia a Brescia. Non ci sono dei colpevoli, ma una verità giudiziaria esiste. Per averne anche una storica, che sia definitiva e condivisa, dovremmo diventare un Paese più adulto.

Da dove partire, per una riflessione seria e sana su quegli anni e quelle ferite?

Dai ragazzi. Quando vado a parlare nelle scuole, gli studenti danno sempre la sensazione di aver capito che io non parlo dei terroristi da una prospettiva assolutoria, che il mio non è un volemose bene, ma un tentativo di affrontare le cose in modo adulto. I ragazzi capiscono che quella degli anni ’70 non era una generazione impazzita. A volte la gente, invece, pare che pensi sia stata una grande allucinazione collettiva, che qualcuno abbia vaporizzato mescalina nell’aria e la gente si sia detta “armiamoci e lottiamo”. Il mondo era diverso allora: se Pinochet prendeva il potere in Cile, la gente si sentiva in dovere di reagire dall’altro capo del mondo. Non c’era l’anestesia alla violenza che c’è adesso, si vedevano le cose diversamente. Non possiamo usare le nostre lenti del presente per interpretare i fatti di quel periodo.

Invece si rimane fermi al buono e al cattivo.

Mia mamma mi raccontava sempre che quando papà andava a intervistare Renato Curcio (fondatore e leader storico delle BR, ndr), tornava a casa con mille dubbi. Era affascinato, pensava che alcune delle sue rivendicazioni fossero giuste, ma il modo di metterle in pratica tremendo. Penso che raccontare queste cose possa fare bene a tutti, che sia più utile rispetto a costruire sempre e soltanto dei mostri. Non siamo mai passati attraverso un processo di riconciliazione, ci siamo raccontati tante bugie perché era più semplice.

Quanto è condivisa la tua posizione tra i famigliari delle vittime?

Pochissimo, da loro e dai politici. Mi hanno dato del figlio indegno, me ne hanno dette di tutti i colori. Non me ne può fregare di meno, perché mia mamma e tanti ex colleghi di papà mi hanno confermato che, con il mio lavoro, sto portando avanti quelli che erano i suoi valori. Per me è l’unica cosa che conta.

Che effetto ti ha fatto la “gogna” di questi giorni e il linguaggio usato nei confronti di Battisti: “la pacchia è finita”, “deve marcire in galera”…

Mi addolora. Se penso a papà e alla sua vita in difesa della Costituzione, mi viene male a vedere come si comportano oggi le istituzioni e soprattutto chi rappresenta le forze dell’ordine. L’esatto opposto dei valori per cui lui è morto.

La rabbia di un famigliare, però, è normale, inevitabile.

E figuriamoci se non la capisco io. Io prima volevo uccidere chi ha ammazzato mio padre, fino a che non ho trovato qualcuno che mi ha fatto ragionare. Manlio Milani (marito di una vittima della strage di piazza della Loggia e presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime bresciane, ndr) e Agnese Moro (figlia dell’ex segretario DC, ndr) sono usciti dal concetto di vittima, si sono dati delle responsabilità e sono diventati protagonisti lucidi della loro storia. Se non li avessi incontrati, sarei ancora lì a ringhiare. Ma non ti porta da nessuna parte.

Anche l’opposizione di centrosinistra ha avuto toni duri sulla vicenda. A tratti è sembrato che se non odi Battisti, non sei italiano.

Negli anni ho incontrato davvero poche persone, e solo a titolo persone, che hanno avuto un atteggiamento diverso dal “mainstream”. Quando ci siamo di mezzo noi famigliari vittime e quegli anni, perdono tutti la testa. Siamo sempre stati delle bandierine da sventolare da parte di tutte le fazioni politiche, spesso per non occuparsi d’altro. La politica ci usa per creare ulteriori divisioni. Questo perché siamo governati da politici e non da statisti: gente che non pensa ai prossimi vent’anni, ma solo alle prossime elezioni.

Cosa rimarrà di queste giornate?

Nulla. Dimmi se c’è un concetto dal quale possa nascere un ragionamento, una discussione, tra tutti quelli sentiti in questi giorni. Da “deve marcire in galera” non nasce proprio nulla. Ai politici non frega niente delle vittime né dei loro cari, certi linguaggi rendono palese la strumentalizzazione. Il caso Battisti, oggi, è l’ennesimo esempio della ricerca di un nemico da additare e linciare. È la prova del nove del periodo di merda che stiamo vivendo.

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