L’aborto è libertà, e la Corte Suprema vuole sopprimerla | Rolling Stone Italia
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L’aborto è libertà, e la Corte Suprema vuole sopprimerla

Perché limitare l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, non è libertà. Perché non permettere che si possa porre un rimedio all’orrore, a una vittima di stupro, non è libertà. Perché vietare a una donna di abortire, quando ancora non sa di essere incinta, non è libertà

L’aborto è libertà, e la Corte Suprema vuole sopprimerla

Foto di Alexi Rosenfeld/Getty Images

«Care bambine, quella che sto per raccontarvi è una storia che parla di libertà». Vorrei iniziasse così, il racconto che farei alle mie figlie. Le metterei lì, sedute al tavolo da pranzo a mangiare la merenda che ho preparato loro per il ritorno da scuola, e poi aprirei la questione. Lo farei forse perché, lì per lì, sentirei l’esigenza di ampliare il discorso magari iniziato in classe con la maestra, o magari ascoltato in quel momento di sfuggita, in un qualche programma pomeridiano che scorre, sulla televisione accesa, le immagini di un evento lontano. E lo farei perché, al di là di tutto, loro sarebbero abbastanza grandi da capire, chiedere, considerare, anche con un pezzo di pane e Nutella in mano. E perché la vicenda sarebbe già conclusa da un pezzo; il caso, chiuso. Libertà, fatta.

Invece sono qui, a raccontare ancora alle mie figlie storie di fate e unicorni, mentre la televisione racconta a noi, ora, delle proteste che stanno andando avanti da giorni davanti alla Corte Suprema, a Washington. Nella storia di adesso, ci sono i cartelloni (su cui sono scritte cose come «Il mio corpo, la mia scelta» e «Io sono per la genitorialità pianificata»), e ci sono le persone, tante, a manifestare contro la possibilità che vengano meno quasi cinquant’anni di libertà legate all’accesso all’aborto. E poi c’è un giudice, Samuel Alito, che fa parte della maggioranza repubblicana della Corte Suprema, che ha redatto una bozza (segreta) di parere maggioritario che, se sarà approvata in via definitiva, cancellerà due storiche sentenze sull’aborto. Prima di arrivare a questo punto, però, è il caso di tornare un attimo indietro, per capire da dove nasce la questione, e perché è proprio la Corte Suprema a esprimersi in merito. D’altronde, ogni storia che si rispetti inizia con un «C’era una volta», no?

La nostra storia inizia con la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, ossia la più alta corte della magistratura federale. Lì, otto giudici assegnati e un Presidente sono chiamati a esprimersi non solo in ultima istanza riguardo i casi tribunali federali e quelli degli Stati federati, ma anche sulla legittimità costituzionale delle leggi. Meccanismo che ha portato, nel caso specifico dell’aborto, a due sentenze storiche: la Roe vs. Wade, del 1973, e la Planned Parenthood vs. Casey, del 1992. Nella prima, la Corte ha stabilito per la prima volta nella storia americana che la donna ha diritto costituzionale all’aborto entro il primo trimestre, e senza interferenze da parte dello Stato; nella seconda, i giudici hanno riaffermato questo diritto, seppur facendone un discorso di standard di vitalità del feto (considerandolo in genere entro le ventiquattro settimane di gestazione). In quest’ultimo caso, poi, ricollegando il tutto al Quattordicesimo emendamento, e in particolare alla Due Process Clause, che proibisce la privazione di vita, libertà o proprietà, da parte del Governo, salvo quanto autorizzato dalla legge.

Complice la presenza di personalità liberali, negli ultimi cinquant’anni nessuno della Corte Suprema ha mai immaginato di mettere in discussione la Roe e la Casey. Le due sentenze rappresentano ormai due capisaldi, che mettono un freno alle strette degli Stati anti-abortisti quali il Texas e l’Alabama (giusto per citarne un paio), trovando la massima strenua resistenza nella figura di Ruth Bader Ginsburg, pioniera nella lotta alla parità di genere e all’aborto, già a partire dalla nomina a giudice della Corte Suprema sotto la presidenza Clinton, nel 1993. Fin qui ci siamo?

Ma ecco arrivare il risvolto tragico: con la morte della Ginsburg, le cose iniziano a cambiare. Siamo nel settembre 2020, e Donald Trump non perde tempo, nominando com’è in suo potere una nuova giudice per la Corte Suprema: si tratta della repubblicana Amy Coney Barrett. Cattolica Integralista, la Barrett è antiabortista al punto da paragonare il diritto all’aborto del 1973, a quello della pena di morte. Con la Barrett, e con una maggioranza ormai a prevalenza repubblicana, il 20 gennaio scorso la Corte Suprema fa il primo passo a superamento delle Roe e Casey, respingendo una sentenza che annullava la legge antiaborto in Texas (una delle più liberticide: quella per cui non è possibile abortire dal momento che si sente il cuore battere, ossia dopo le sei settimane).

Fatte queste premesse, ecco che si arriva a oggi e alla famosa bozza del giudice Samuel Alito. Prima un piccolo appunto su come funziona la bozza: il caso del singolo Stato arriva alla Corte Suprema. Subito dopo, il caso viene preso in questione e un giudice della maggioranza viene incaricato di redigere una bozza a parere del tribunale. Questa viene presa in discussione e fino all’ultimo, di fatto, non si può sapere dove verterà la sentenza, perché la bozza è riservata agli addetti ai lavori (ricordate questa cosa, perché tornerà utile ai fini del racconto).

In qualità di membro della maggioranza repubblicana della Corte Suprema, il giudice Samuel Alito viene quindi incaricato di redigere una bozza preliminare per la sentenza Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization, che infiamma il Mississippi dal 2018. Chiamato così a esprimersi sulla legittimazione finale del Gestational Age Act (per cui non sarà più possibile abortire dopo le quindici settimane di gestazione, neanche in caso di incesto o stupro), il giudice Alito finisce per scrivere un centinaio di pagine di bozza, che sfortunatamente però finiscono fuori dal diario segreto della Corte Suprema, e tra le mani della redazione di Politico.

Nel testo, che porta il titolo di “Parere della Corte”, la validità delle leggi del Mississippi vengono sostenute dal giudice Samuel Alito, con la tesi che (colpo di scena) le sentenze storiche Roe e Casey siano incostituzionali. In particolare, la Roe del 1973, perché appellandosi al Quattordicesimo emendamento, «il suo messaggio sembrava essere che il diritto all’aborto poteva essere trovato da qualche parte nella Costituzione», ma senza specificare dove, in un’indagine che, secondo Alito, «andava dal costituzionalmente irrilevante, al palesemente scorretto». Arrivando infine alla «conclusione inevitabile che il diritto all’aborto non è profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni della Nazione» e che «la Costituzione non vieta ai cittadini di ogni Stato di regolamentare o vietare l’aborto». Fino alla presa di posizione finale e cioè che, poiché «Roe e Casey si sono arrogati quell’autorità», spetta ai giudici «annullare tali decisioni e restituire tale autorità al popolo e ai suoi rappresentanti eletti».

A rincarare la dose, Samuel Alito non solo chiama in causa la Ginsburg e altri pro-abortisti, riconoscendoli essi stessi critici sulla costituzionalità di Roe, ma buttando la cosa anche su un discorso razziale, assumendo che le legittimazioni di Roe abbiano portato i sostenitori dell’eugenetica a una maggiore pratica sulle donne di colore, per la decimazione delle nascite. Insomma, Proietti direbbe: «‘ndo cojo, cojo».

Per quanto la storia non si sia ancora conclusa – lo farà solo quando verrà espressa la sentenza finale, entro il 30 giugno prossimo –, le pagine che ci sono passate davanti sono abbastanza per trarre due conclusioni fondamentali. La prima, è che per portare acqua al proprio mulino (antiabortista), la maggioranza repubblicana della Corte Suprema sta puntando tutto sui diritti enumerati (in sostanza, quelli menzionati espressamente dalla Costituzione). La seconda, che se la sentenza finale vedrà una deliberazione a favore della legge del Mississippi, non solo si legittimerà una maggiore stretta verso l’aborto da parte degli Stati più rigidi al riguardo, ma, quel che è peggio, si procederà anche (e soprattutto) alla cancellazione di cinquant’anni di sentenze che tutelavano la libertà delle donne. Sì, perché è di questo che stiamo parlando: della libertà.

Perché limitare l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, non è libertà. Perché non permettere che si possa porre un rimedio all’orrore, a una vittima di stupro, non è libertà. Perché vietare a una donna di abortire, quando ancora non sa di essere incinta, non è libertà.

«Care bambine, quella che sto per raccontarvi è una storia che parla di libertà». Come vorrei che iniziasse così, il racconto che farei alle mie figlie.