La storia delle Olimpiadi è (anche) una storia di gentrificazione | Rolling Stone Italia
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La storia delle Olimpiadi è (anche) una storia di gentrificazione

Negli ultimi decenni i Giochi hanno smesso di essere solo sport: sono eventi che cambiano il volto delle città che li ospitano, arricchendo costruttori e speculatori e escludendo i poveri

La storia delle Olimpiadi è (anche) una storia di gentrificazione

Patrick Smith/Getty Images

Poche settimane dopo la nomina ufficiale di Tokyo come città ospitante dei XXXII Giochi Olimpici, i giornali di tutto il mondo hanno dedicato ampio spazio alla singolare vicenda di Jinno Kohei, un edicolante giapponese che abita nel gigantesco distretto di Kasumigaokamachi, situato nell’area sud di Shinjuku. Kohei, oggi 87enne, è infatti suo malgrado il detentore di un triste record, dato che è stato costretto ad abbandonare la propria casa in entrambe le occasioni in cui la capitale nipponica è stata scelta come teatro delle Olimpiadi: la prima volta nel 1964, quando la sua abitazione fu demolita per favorire la costruzione del primo Japan National Stadium; la seconda nel 2013, appena un mese dopo la designazione ufficiale di Tokyo per le Olimpiadi del 2020, quando ricevette un avviso di sfratto a causa dei lavori di ristrutturazione della medesima struttura, che prevedevano la demolizione del complesso di edilizia popolare dove viveva con sua moglie. Il caso di Kohei è soltanto una piccola manifestazione di un malessere sistemico che non riguarda soltanto il Giappone: lo sfollamento dei residenti rappresenta, infatti, una costante endemica dei progetti di riqualificazione legati alla preparazione dei cosiddetti “grandi eventi”, ed è parte integrante della loro storia recente. 

Diversi analisti hanno osservato come, negli ultimi trent’anni, le Olimpiadi abbiano cessato di rappresentare un semplice evento sportivo, trasformandosi in uno strumento di speculazione edilizia mascherato dall’etichetta rassicurante della “rigenerazione urbana”. Lo schema è ormai noto: le amministrazioni cittadine riversano cifre iperboliche nella costruzione di infrastrutture e altri progetti che, almeno in teoria, dovrebbero generare degli effetti positivi nel lungo termine, conformandosi ai dettami della teoria economica neoliberista nota come trickle-down (ossia “sgocciolamento”), secondo la quale i vantaggi garantiti ai ceti più abbienti, in modo graduale, dovrebbero tradursi in un beneficio per l’intera collettività.

Di solito le istituzioni presentano questi investimenti come un’occasione irripetibile per migliorare la città nel suo complesso, a giovamento di chiunque, a prescindere dalla sua situazione di reddito; tuttavia, spesso la realtà è ben diversa: le Olimpiadi rappresentano un’occasione ghiottissima per far lievitare artificialmente il valore degli immobili, innescando un processo al rialzo di cui beneficiano perlopiù i costruttori – tanto quelli del posto quanto quelli provenienti dall’estero, a cui vengono assegnati gli appalti – e le fasce benestanti della popolazione, al contrario dei poveri, che finiscono puntualmente per rimetterci, sperimentando sulla propria pelle i prodromi di quel processo conosciuto come gentrificazione, ossia, riprendendo la definizione di Jason Hackworth, la “produzione di spazio urbano a uso e consumo di utenti progressivamente più ricchi”. Una trasformazione profonda che è in grado di plasmare la natura sociale di un quartiere e che, solitamente, comincia con un’impennata degli affitti e si conclude con la sostituzione di classi medio-basse e basse con classi medio-alte e alte.

Da questo punto di vista, la capitale giapponese rappresenta un caso emblematico: per Tokyo, le Olimpiadi del 1964 segnarono un punto di svolta, ammantando il Giappone di un’aura quasi futuristica, sino al punto di venire ricordate come “Olimpiadi della fantascienza”. In quell’occasione furono gettate le basi di un imponente piano infrastrutturale che si articolò in una serie di interventi senza precedenti: furono costruire nuove autostrade, il sistema fognario fu interamente ridisegnato, la città accolse per la prima volta hotel di lusso e colossi del real estate e furono inaugurati i 21 km di monorotaia che tuttora collegano l’aeroporto internazionale di Tokyo al centro cittadino.

L’intervento pubblico in economia procedette di pari passo con l’impiego di innovazioni tecnologiche: i computer furono usati per la prima volta in una competizione olimpica, introducendo dispositivi di cronometraggio che potevano separare i posizionamenti degli atleti con una precisione precedentemente sconosciuta; il satellite Syncom III, combinato con la tecnologia giapponese, permise di trasmettere le immagini TV in diretta in tutto il mondo, stabilendo un altro primato – insomma, non c’è da stupirsi se David Goldblatt, nel suo saggio The Games, le ha definite come “il più grande slancio di immaginazione collettiva nella storia del Giappone del Dopoguerra”. 

Nei piani dell’ex primo ministro Shinzō Abe, le Olimpiadi in corso avrebbero dovuto ripetere un’impresa simile, simboleggiata dalla costruzione del nuovo villaggio olimpico di Harumi, definito anche come “villaggio a idrogeno” per via dell’innovativo sistema energetico che lo rende autosufficiente e situato nel punto di contatto tra due grandi ellissi, che ospitano le strutture olimpiche della Heritage Zone a ovest e della Tokyo Bay Zone a est. Tuttavia, come da copione, anche in questo caso le ricadute sociali sono state pesantissime: nell’arco di soli quattro anni, tre quarti della popolazione locale hanno dovuto allontanarsi da Harumi.

Anche i senzatetto hanno pagato a caro prezzo l’euforia da Olimpiadi: il parco Miyashita, vicino alla stazione di Shibuya, è stato interessato da un progetto di riqualificazione coordinato dal colosso nipponico del real estate Mitsui Fudosan Realty, che lo ha trasformato in un imponente hotel di 18 piani. Da quando il parco è stato chiuso per avviare i lavori, le già precarie condizioni di vita di moltissimi homeless sono peggiorate ulteriormente: storicamente, infatti, molti parchi pubblici in Giappone hanno assolto a una funzione sociale importantissima, trasformandosi di fatto in luoghi di rifugio per i membri della comunità che hanno perso le loro case a causa dei disastri naturali e delle devastazioni belliche – secondo un’indagine commissionata dal governo, nel gennaio 2019 almeno 1.126 senzatetto vivevano all’interno dei parchi, lungo il fiume e negli edifici delle stazioni di Tokyo.

Non a caso, nel corso degli anni, governi locali e cittadini hanno sviluppato una cultura di tolleranza nei confronti dei senzatetto che usano gli spazi dei parchi per piantare le proprie tende o costruire baracche di fortuna. Ad esempio, nei primi anni Duemila, il Parco di Ueno (uno dei più grandi di Tokyo) ospitava più di 650 tende, che si univano alle 350 installate nel Parco Yoyogi e alle 100 costruite proprio a Miyashita. Tuttavia, a partire dal 2013, i controlli sono diventati sempre più serrati: i pattugliamenti sono diventati frequentissimi, i parchi hanno iniziato a chiudere durante la notte e le amministrazioni hanno cominciato a considerarli come risorse inutilizzate da mettere a profitto, anche approvando leggi ad hoc volte a consentire al capitale privato di accedervi più facilmente.

Più in generale, il malcontento per i giochi olimpici ha interessato larghi strati della popolazione giapponese: sono stati istituiti veri e propri comitati anti-Olimpiadi, e alcuni sondaggi hanno indicato che oltre l’80% dei cittadini giapponesi avrebbe preferito annullare i giochi estivi, non considerandoli una priorità in una situazione particolarmente delicata per il Giappone, un paese in cui a maggio solo il 3,7% della popolazione aveva ricevuto almeno una dose di vaccino solo e alle prese con una quarta ondata di COVID-19.

Quello di Tokyo non è un caso isolato; gli esempi, purtroppo, sono molteplici: durante i lavori preparatori delle Olimpiadi del 2008 a Pechino, i trasferimenti coatti hanno riguardato più di un milione di persone, indotte a spostarsi in periferia per fare spazio ai cantieri. Un destino simile ha interessato i 30.000 residenti sfrattati in occasione delle Olimpiadi di Atlanta del 1996 e i 720.000 cittadini che hanno dovuto lasciare le proprie case poco prima delle Olimpiadi di Seoul del 1988. Tuttavia, il caso più eclatante degli ultimi anni rimane quello del Brasile: nel periodo precedente ai Giochi Olimpici di Rio del 2016, il quartiere popolare di Vila Autódromo è stato praticamente rasa al suolo a causa degli interessi di investitori e imprenditori edili, che hanno obbligato i residenti originari della zona ad andarsene, perché sfrattati o incapaci di far fronte all’aumento vertiginoso degli affitti. Gli abitanti della favela hanno visto demolire le proprie case, in cambio di una compensazione economica o di una sistemazione altrove: al loro posto sono stati realizzati un parcheggio e strade d’accesso al parco olimpico, in quelli che gli attivisti locali definiscono ancora oggi come “Giochi dell’esclusione”.