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La storia della strage “dimenticata” di Tulsa, in Oklahoma, 100 anni fa

Tra il 31 maggio e il 1 giugno 1921 un quartiere ricco e abitato da soli neri della città americana di Tulsa venne raso al suolo causando centinaia di morti. Una strage che è stata un punto di svolta della questione razziale negli Stati Uniti, ma è che è stata dimenticata

Rovine di case di afroamericani a Greenwood, Tulsa, dopo la strage. Foto via Wikimedia Commons

Immaginatevi una strage nazifascista. Grave come le Fosse Ardeatine, con stime di 300 morti e una distruzione di un intero quartiere, raso al suolo anche con l’aiuto di bombardamenti aerei. Ecco, adesso immaginatevi che tutto questo venga dimenticato per anni. È la storia della distruzione della più ricca comunità afroamericana degli Stati Uniti, il quartiere di Greenwood a Tulsa, in Oklahoma, che prima delle giornate del 31 maggio e del 1 giugno 1921 era un simbolo: il simbolo che la segregazione razziale che a quei tempi era legge in gran parte del Paese poteva funzionare e che, pur senza diritto di voto, anche per i discendenti degli schiavi c’era un pezzetto di sogno americano. La strage di Tulsa, invece, mostrò che la segregazione, la cui legalità era stata sancita da una sentenza della Corte Suprema del 1896, non lasciava spazio ad alcuna autonomia. L’obiettivo dei politici sudisti era la sottomissione.

La strage di Tulsa non è un linciaggio come le centinaia avvenute negli Stati ex confederati. L’Oklahoma era uno stato giovane, riconosciuto dal Congresso nel 1907 dopo che nel 1905 era stata bocciata un’altra entità a maggioranza nativo-americana, lo stato di Sequoyah. Accoglieva al suo interno un mosaico etnico variegato, comprendente anche le cosiddette ex tribù civilizzate, quelle che durante la guerra civile si erano alleate con la Confederazione sudista in ragione del loro disinteresse per l’espansione a ovest. E a partire dal 1889 accoglieva molti afroamericani fuggiti dagli Stati che stavano instaurando un regime segregazionista sempre più repressivo e che in Oklahoma avevano costruito la propria fortuna. Greenwood, quartiere segregato di Tulsa, nel era l’emblema: chiamato dai giornali “la Wall Street nera” aveva un sistema autonomo di trasporto pubblico, due cinema, una banca, un ufficio postale e negozi e ristoranti di vario genere. Tre residenti avevano un patrimonio superiore al milione di dollari e sei famiglie possedevano un aereo privato.

Il 30 maggio 1921 un lustrascarpe di 19 anni, Dick Rowland, esce dal suo negozio per andare nel bagno per neri del Drexel Building, all’ultimo piano. L’ascensorista è una ragazza bianca di 17 anni, Sarah Page. Durante la salita si sente un urlo. Non si è mai saputo cosa possa essere successo. Forse l’ascensore ha avuto uno scossone e Rowland è andato a sbattere inavvertitamente contro Page. Fatto sta che da quell’episodio un giornale locale, il Tulsa Tribune, monta un caso scandalistico con particolari pruriginosi. Una folla di bianchi inferociti si raduna di fronte al tribunale, chiedendo la consegna del ragazzo. L’anno prima un bianco sospettato di omicidio, Roy Belton, era stato linciato dalla folla: lo sceriffo quindi si rifiuta di consegnare Rowland. Nel frattempo nella comunità afroamericana comincia a circolare la voce di quello che sta succedendo e molti giovani cominciano a raccogliere armi e ad accorrere in difesa di Rowland. 

Nonostante la mediazione di un pastore presbiteriano, Charles William Warr, la situazione degenera: una sparatoria di fronte al tribunale lascia a terra dieci bianchi e due neri. Per il Tulsa Tribune a questo punto per punire l’arroganza della comunità afroamericana “serve il Ku Klux Klan”. Il 31 maggio inizia il massacro: civili armati razziano un’armeria federale e iniziano a sparare a vista. Secondo la testimone oculare Mary Jones Parrish, giornalista e futura autrice di uno dei pochi resoconti diretti del massacro, “gli afroamericani resistettero con la tenacia del vecchio Stonewall Jackson”, citando il generale confederato braccio destro di Robert Lee. Ma non bastò. Vennero anche usati aerei per bombardare la città. Trentacinque isolati vennero distrutti e le stime di una commissione dell’Oklahoma del 2001 ci parlano di un tragico bilancio compreso tra i 75 e i 300 morti. Ma nonostante il libro di Parrish, Events of Tulsa disaster, stampato l’anno dopo, del massacro non resterà nessuna traccia nella storia ufficiale. Dopo qualche anno, il quartiere verrà ricostruire, sempre florido, ma senza le speranze che portava con sé. E la storia diventerà il grande rimosso delle relazioni razziali negli Stati Uniti, noto a pochi specialisti.

Neri presi prigionieri durante i combattimenti a Tulsa. Foto via Wikimedia Commons

È anche per questo motivo che quando lo scrittore afroamericano Ta-Nehisi Coates ha scritto il suo famoso articolo The case for reparations su The Atlantic nel 2014 molti l’hanno accolto con scetticismo. Il caso di Tulsa mostra che invece le vittime di crimini di odio razziale e i loro discendenti una compensazione la meriterebbero eccome. La raffigurazione dell’evento nella serie tv Watchmen ha contribuito in modo decisivo a far luce definitiva sull’argomento, e il nuovo presidente Joe Biden ha annunciato che il 1 giugno sarà a Tulsa a commemorare la strage. 

Intanto, proprio in questi giorni, l’Oklahoma – governato dai Repubblicani – ha approvato una legge che rende più difficile insegnare la storia dei rapporti razziali nelle università pubbliche dello Stato. Secondo il professor Kevin Levin, storico della guerra civile, è quantomeno “curioso” che per le stesse persone “rimuovere un monumento a un generale confederato è cancellare la storia mentre il massacro di Tulsa non era poi così importante”. La verità è che quell’evento segno un punto di rottura e, anche se venne dimenticato, serve oggi a ricordare che certi problemi come le disuguaglianze razziali non possono essere rimossi. Perché altrimenti mancano pezzi importanti per capire che certi pregiudizi come, ad esempio, “i neri non hanno voglia di lavorare”, che secondo la storica dell’università della Pennsylvania Alaina Roberts si riflettono ancora nelle policy di assunzione delle grandi aziende della Silicon Valley. Perché alla fine chi ha perpetrato il massacro di Tulsa voleva dire che solo i bianchi, possibilmente anglosassoni, avevano diritto al sogno americano. E questo non si può dimenticare, né tantomeno cancellare.

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