La storia della lotta per far riconoscere l’ecocidio come crimine contro l’umanità | Rolling Stone Italia
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La storia della lotta per far riconoscere l’ecocidio come crimine contro l’umanità

Da più di dieci anni, attivisti ed esperti sono al lavoro per far sì che i danni ambientali vengano riconosciuti come reato perseguibile a livello internazionale, al pari dei crimini contro l'umanità. Questa settimana c'è stato un importante passo avanti

La storia della lotta per far riconoscere l’ecocidio come crimine contro l’umanità

Vuk Valcic/SOPA Images/LightRocket via Getty Images

Era il 2010 quando l’avvocato e attivista scozzese Peggy Higgins trasmise alla commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite una proposta di legge per riconoscere l’ecocidio – da lei definito come “la distruzione, il danneggiamento o la perdita su vasta scala di uno o più ecosistemi di un determinato territorio” – come un crimine contro l’umanità. Nonostante non se ne sia fatto niente, l’impulso di Higgins ha creato un precedente: da quel momento in poi, la Corte ha accettato di trattare casi di distruzione ambientale alla stregua di “crimini contro l’umanità” quando fosse accertato un impatto “sufficientemente grave” sulla popolazione di una determinata area – quest’anno ad esempio una causa simile è stata intentata dai leader indigeni brasiliani contro il presidente del Brasile Jair Bolsonaro per la deforestazione dell’Amazzonia. 

Nel 2017, Higgins e l’attivista inglese Jojo Metha hanno unito le forze nella campagna di sensibilizzazione Stop Ecocide International, con lo scopo di far inserire l’ecocidio tra i reati riconosciuti dalla Corte penale internazionale. Infatti, anche se può sembrare paradossale, oggi le devastazioni ambientali causate dagli esseri umani non rientrano tra i crimini internazionali perseguibili dal tribunale dell’Aia, che può pronunciarsi su questi casi soltanto in base agli effetti provocati sulle persone. 

Per porre rimedio a questa lacuna giuridica, la fondazione ha riunito un gruppo composto da 12 esperti di giustizia climatica e diritto internazionale – guidato da Philippe Sands, avvocato e autore del saggio La strada verso est, e da Dior Fall Sow, ex procuratrice internazionale delle Nazioni Unite – con lo scopo di formulare una bozza di legge sull’ecocidio che possa impedire a individui, società o stati di danneggiare il pianeta e i suoi ecosistemi per il profitto o il potere. Per questa via la devastazione ambientale diventerebbe il quinto pilastro dei reati contrastati dalla Corte (insieme al genocidio, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra e di aggressione) e il primo nuovo crimine internazionale dagli anni Quaranta, quando i leader nazisti furono perseguiti nei processi di Norimberga. 

Il dibattito sulla criminalizzazione dell’ecocidio affonda le radici in tempi lontani: già nel 1972, il primo ministro vedese Olof Palme evidenziò la necessità di una legge di questo tipo durante la conferenza ambientale delle Nazioni Unite di Stoccolma, quando accusò di ecocidio il governo statunitense per il suo utilizzo indiscriminato, durante la guerra in Vietnam, del cosiddetto “agente arancio” – un defoliante costituito da due diversi erbicidi e contenente diossina, utilizzato dall’esercito americano per rendere sterili vaste aree del paese e affamare la popolazione civile. 

Finalmente, quasi 40 anni dopo e due dopo la morte di Higgins, la fondazione Stop Ecocide ha raggiunto un traguardo importante, portando a compimento una prima bozza di configurazione formale del reato. In base al testo pubblicato lo scorso martedì, la parola ecocidio fa riferimento a “atti illegali o sconsiderati commessi con la consapevolezza che esiste una probabilità sostanziale di danni gravi e diffusi o a lungo termine all’ambiente da tali atti”. Alcuni esperti avrebbero voluto che la definizione menzionasse esplicitamente il cambiamento climatico, ma la proposta non è stata accettata per rendere più difficile per paesi e aziende opporsi alla nuova legge.

Con questa formulazione più generale e astratta, infatti, rientrerebbero nella fattispecie di “ecocidio” anche eventi come le grandi fuoriuscite di petrolio, la deforestazione dell’Amazzonia o l’uccisione di specie protette. Secondo la fondatrice Jojo Mehta, la redazione del testo rappresenta un momento storico: “La definizione risultante è ben calibrata tra ciò che deve essere fatto concretamente per proteggere gli ecosistemi e ciò che sarà accettabile per gli stati. È concisa, è basata su forti precedenti legali e si integrerà bene con le leggi esistenti. I governi la prenderanno sul serio e offre uno strumento giuridico praticabile che corrisponde a un bisogno reale e urgente nel mondo”.

Tuttavia, la partita non è ancora chiusa: la speranza è che la definizione predisposta dagli esperti possa essere adottata come emendamento allo Statuto di Roma, che regola il lavoro della Corte penale internazionale. La spinta a fare dell’ecocidio una dimensione legale di criminalità internazionale rappresenta un primo passo indispensabile per stabilire un dovere, non solo morale ed etico, ma anche legale, nei confronti di tutte le forme di vita presenti sulla Terra.