La SOS Humanity è ancora là fuori, a ricordarci quanto facciamo schifo | Rolling Stone Italia
Diritti

La SOS Humanity è ancora là fuori, a ricordarci quanto facciamo schifo

Dopo undici giorni in mare aperto e svariate richieste alle autorità italiane e maltesi, rimaste inascoltate, 104 minori non accompagnati continuano a rimanere intrappolati davanti alle coste della Sicilia orientale. In totale, le persone rimaste in mare, ospitate da tre diverse navi, sono 985, diventate loro malgrado oggetto della propaganda di governo. La dottrina dei "porti chiusi" è tornata, e finirà malissimo

La SOS Humanity è ancora là fuori, a ricordarci quanto facciamo schifo

La situazione è ormai nota: dopo undici giorni in mare aperto e svariate richieste alle autorità italiane e maltesi, rimaste puntualmente inascoltate, 104 minori non accompagnati, molti dei quali bisognosi di cure mediche, continuano a rimanere intrappolati a bordo della nave Humanity 1, che staziona davanti alle coste della Sicilia orientale in attesa che l’Italia – come sarebbe tenuta a fare in adempimento alle normative internazionali – possa assegnare loro, finalmente, un porto sicuro.

Una condizione simile è quella in cui versano le due imbarcazioni Geo Barents e Ocean Viking, entrambe battenti bandiera norvegese e legate, rispettivamente, a Medici Senza Frontiere e SOS Mediterranee. La prima, tra il 27 e il 29 ottobre, ha soccorso 572 persone in 7 distinte operazioni di salvataggio nelle acque internazionali di zona SAR maltese; la seconda ospita a bordo 234 persone che mostrano i segni delle torture, delle violenze sessuali e degli abusi subiti in Libia e, prendendo atto del disinteresse di Italia e Malta, ha già chiesto soccorso agli altri stati costieri (Francia, Grecia e Spagna).

In totale, allo stato attuale, le persone bloccate in mare sono 985, diventate loro malgrado carne da cannone e oggetto dei desideri della propaganda di governo. Che Piantedosi avesse in cantiere un revival della dottrina dei “porti chiusi” di salviniana memoria non era un mistero per nessuno, anche perché l’ispiratore di quella strategia fu proprio lui: ha seguito pedissequamente l’ascesa del Carroccio e la stesura dei due decreti sicurezza – dal 2018 al 2019, quando la Lega ha governato con il Movimento 5 stelle –, dando concretezza materiale, sulle strade e in mare, alle idee legislative partorite dalla Lega, ed è stato anche indagato dalla Procura di Agrigento (e la sua posizione repentinamente archiviata) per i reati di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio in riferimento al caso della nave Diciotti, a cui fu negato lo sbarco dei migranti soccorsi in mare.

La stessa distribuzione dei ministeri decisa da Meloni è perfettamente funzionale a un revival della dottrina dei porti chiusi: anche se i desiderata del segretario della Lega non sono stati soddisfatti appieno (l’inquilino del Viminale voleva essere lui), la poltrona che occupa attualmente gli consente di incidere in concreto anche sulla gestione dei flussi migratori. Infatti, l’articolo 83 del Codice della navigazione stabilisce che il ministro dei Trasporti «può limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione (…) determinando le zone alle quali il divieto si estende». Date le premesse, va da sé che l’asse Salvini–Piantedosi darà forma al presupposto ideale per inaugurare una nuova stagione di demonizzazione dell’operato delle ONG.

Anche le motivazioni fragilissime addotte da Piantedosi per giustificare il blocco ricordano, parecchio da vicino, lo stile comunicativo del Salvini del 2018: a detta del ministro, infatti, le operazioni di salvataggio non sarebbero avvenute nella zona SAR italiana e, di conseguenza, il nostro Paese non sarebbe chiamato a intervenire. Ovviamente, è una cazzata; chiunque abbia anche soltanto sfogliato un giornale negli ultimi quattro anni dovrebbe ormai sapere che, in realtà, il quadro è decisamente più complesso: la Convenzione di Amburgo del 1979 e le altre norme sul soccorso marittimo prevedono che gli sbarchi debbano avvenire nel primo “porto sicuro”, e non in quello più vicino; la prossimità geografica, in breve, c’entra fino a un certo punto: è necessario individuare un porto privo di rischi e di pericoli per la nave e per la comunità viaggiante, in cui sia garantito un certo standard di rispetto dei diritti umani. Da questo punto di vista, né Malta (isola piccolissima e totalmente inadatta a gestire flussi migratori di questa portata) né la Libia (paese instabile politicamente e militarmente, che non ha sottoscritto la Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati e, soprattutto, privo di una legislazione in materia di asilo o procedure di asilo stabilite) sono in grado si soddisfare questi requisiti. Ecco il motivo per cui l’Italia è, spesso, sollecitata a intervenire quando si tratta di soccorsi in mare nel Mediterraneo: si presuppone che il nostro sia un Stato di diritto, in cui concetti come dignità umana, solidarietà e protezione hanno ancora una certa rilevanza.

Sono passati quattro anni, ma la sostanza non cambia: si scrive Matteo Piantedosi, si legge Matteo Salvini, come ha scritto Maurizio Franco su MicroMega. Il blocco in mare di 985 persone è illegale e disumano: i naufraghi soccorsi in mare non possono essere oggetto di dibattiti politici, devono essere portati in salvo e basta.