La salute mentale è un’emergenza nell’emergenza, ma ce ne siamo dimenticati | Rolling Stone Italia
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La salute mentale è un’emergenza nell’emergenza, ma ce ne siamo dimenticati

Il dibattito sul “bonus psicologo” e i dati allarmanti degli ultimi anni confermano una tendenza preoccupante: in Italia parlare di salute mentale significa parlare di promesse disattese e intenzioni vuote

La salute mentale è un’emergenza nell’emergenza, ma ce ne siamo dimenticati

Foto: CHRISTOPHE ARCHAMBAULT/AFP via Getty Images

Negli ultimi giorni si discute molto del destino che ha interessato il cosiddetto “bonus psicologo”, ossia un contributo che alcuni parlamentari avrebbero voluto inserire nella manovra di bilancio per il 2022. La misura prevedeva la creazione di un “Fondo salute mentale” dal valore complessivo di 50 milioni di euro, da allocare allo scopo di fornire un sostegno economico a chi, principalmente a causa di difficoltà economiche, non ha la possibilità di accedere ai servizi di cura.

Il provvedimento, proposto in un emendamento presentato da alcuni delegati del PD lo scorso due dicembre, si articolava in due assi di intervento, ossia un bonus “avviamento” da 15 milioni – scollegato dalla situazione di reddito dei richiedenti e pensato per garantire un piccolo sussidio a chi, pur non avendo un disturbo mentale diagnosticato, avvertisse la necessità di consultare uno specialista – e un bonus “sostegno” da 35 milioni, che avrebbe avuto la funzione di erogare dei sussidi tra i 400 e i 1.600 euro sulla base dei parametri ISEE.

Tuttavia, la modifica non ha trovato il proprio spazio nella versione definitiva della manovra, generando reazioni tanto da parte della politica quanto da parte della società civile. Ad esempio, in un tweet, la senatrice del PD Caterina Bini – una delle 4 promotrici dell’emendamento – ha spiegato che il bonus «Era una luce accesa su un tema urgente per la vita degli italiani. Siamo amareggiati, certo, ma quello che è importante davvero resta tale e continueremo a lavorarci fino a che potremo», incassando il sostegno del collega Filippo Sensi, secondo cui «È nostro dovere dare una risposta immediata da una sofferenza reale che sta emergendo nel Paese». Ma la delusione per la bocciatura del bonus è stata avvertita soprattutto al di fuori delle sedi istituzionali: il presidente dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, ha detto che «È incredibile che il Mef tagli queste cose come se fossero dei lussi», mentre una petizione lanciata su change.org la scorsa settimana ha superato in pochi giorni la soglia delle 200mila firme, confermando la centralità del tema.

Non è la prima volta che un tentativo di indirizzare una quota importante di spesa pubblica alla tutela della salute mentale non va in porto: come ha ricordato Pagella Politica, alla fine del 2020 (quando, complici l’esperienza traumatica del primo periodo di lockdown e l’isolamento domestico, il tema della tutela della salute mentale è tornato a catalizzare l’attenzione mediatica), la deputata Lia Quartapelle aveva proposto di creare un fondo da 30 milioni di euro da stanziare nell’arco di tre anni per «favorire l’accesso ai servizi psicologici», durante la pandemia, attraverso lo strumento dei voucher. Nello stesso anno, altri due emendamenti avevano proposto di intervenire sul tema, ma come da copione non hanno trovato posto nelle previsioni di spesa.

Purtroppo, analizzando la storia recente, c’è ben poco di cui stupirsi, dato che la verità è sotto gli occhi di tutti: nel corso degli ultimi vent’anni, il nostro paese ha largamente sottostimato la necessità di potenziare i servizi per il benessere psicologico della persona. Per quanto triste sia, in Italia, parlare di salute mentale significa anzitutto parlare di un mosaico di promesse disattese e intenzioni che, per quanto meritorie, vengono puntualmente svuotate di ogni sostanza. Ad esempio, nel 2001, i presidenti delle Regioni si sono impegnati a destinare almeno il 5% dei fondi sanitari regionali alla tutela della psiche, ma da allora quell’obiettivo non è mai stato raggiunto: come riporta Quotidiano Sanità, la media nazionale è inchiodata ancora oggi al 3,5%, con differenze significative da regione a regione che ricalcano il divario economico e sociale che tradizionalmente separa il Nord e il Sud del paese. E anche il Pnrr, che avrebbe potuto rappresentare un’occasione importante al riguardo, non ha previsto alcuna quota esplicitamente dedicata alla salute mentale.

Eppure, nonostante la scarsa attenzione verso il tema, i motivi per incentivare il sostegno ai servizi di cura psicologica ci sarebbero tutti: secondo un’indagine condotta dall’Istituto Piepoli, in questi due anni di pandemia, la domanda di servizi psicologici e psichiatrici è aumentata del 40%; tuttavia, la stessa ricerca ha documentato che un 48,5% di persone, pur avendo cercato aiuto, non ha potuto iniziare un trattamento o ha dovuto interrompere quasi subito le sedute per motivi economici. Intervistato dal Fatto Quotidiano, il summenzionato David Lazzari ha ricordato che i disturbi di ansia e depressione interessano due persone su dieci, mentre i casi di “disturbo dell’adattamento”, oltre una persona su quattro.

Non dovesse bastare, uno degli aspetti più drammatici di questa situazione è che, spesso, il vuoto generato dallo Stato finisce per essere colmato dalle reti di solidarietà – ad esempio, qualche mese fa su Rolling Stone abbiamo raccontato la storia della Brigata Basaglia, un servizio di supporto nato per aiutare tutte le persone colte in contropiede dalle restrizioni del primo lockdown. Anche i numeri relativi al personale sono impietosi: secondo le rilevazioni della Società Italiana di Psichiatria, mancano all’appello 2mila psichiatri, 1.500 psicologi, 5mila infermieri, 1.500 terapisti della riabilitazione psichiatrica e altrettanti assistenti sociali. 

Insomma, dati e atteggiamento del governo sembrano confermare una tendenza un po’ triste: sin dall’inizio della pandemia, la salute mentale è stata un’emergenza nell’emergenza, che ha messo in luce tutti gli errori e le storture di un ventennio di completo disinteresse, che non ha fatto altro che relegarla agli ultimi posti delle politiche pubbliche. Le restrizioni e i traumi che, inevitabilmente, tutti e tutte abbiamo vissuto nell’ultimo biennio avrebbero potuto rappresentare un incentivo per invertire la tendenza; e invece, come da copione, ce ne siamo dimenticati.