La salute mentale deve diventare il nuovo banco di prova della politica (e di tutti noi) | Rolling Stone Italia
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La salute mentale deve diventare il nuovo banco di prova della politica (e di tutti noi)

Il fallimento del bonus psicologo è la riprova che la tutela della mente deve diventare un nuovo mantra popolare: bisogna parlarne ovunque, in piazza, a scuola e durante i comizi elettorali, attribuirle una centralità simile a quella che è stata riservata al riscaldamento globale e alla lotta contro il razzismo. E, se i partiti non vorranno intestarsi questa battaglia, dovrà farlo la società civile

La salute mentale deve diventare il nuovo banco di prova della politica (e di tutti noi)

Foto: CHRISTOPHE ARCHAMBAULT/AFP via Getty Images

La tutela della salute mentale deve diventare un nuovo mantra popolare: bisogna combattere lo stigma e cominciare a parlarne ovunque, in piazza, a scuola e durante i comizi elettorali, attribuirle una centralità simile a quella che, nei tempi più recenti, è stata riservata al riscaldamento globale e ad altre sfide fondamentali del nostro tempo.

Soltanto così, tramite la forza di rottura di una presa di coscienza collettiva, sarà possibile fornire una risposta politica al grido di disperazione dei 4 milioni e mezzo di italiani che, pur avendo potenzialmente bisogno dei servizi di cura, non hanno possibilità di accedervi e, al contempo, reagire con la giusta quantità di sdegno a misure insensate e totalmente disancorate dalla realtà come il “bonus psicologo” – un investimento complessivo da 20 milioni di euro a fronte di una carenza per la tutela della salute mentale in Italia stimata in circa 2 miliardi e 300 milioni: il nulla più totale. Una misura-fantoccio che agisce unicamente sul piano della percezione e che, nel migliore dei casi, consentirà a poche migliaia di persone di pagarsi una decina di sedute dallo psicologo.

Una mancetta ridicola, insomma, che dimostra l’incapacità della politica di inquadrare il reale stato dell’arte dei servizi di cura in Italia, un Paese in cui solo il 3,5% delle risorse viene destinato in modo specifico alla salute mentale, un valore modesto rispetto alla Germania (11,3%), Svezia (10%) e Regno Unito (9,5%), che superano ampiamente la media generale.

Mancati investimenti che hanno ricreato le condizioni per un altro cortocircuito difficile da sanare, ossia una clamorosa mancanza della figura dello psicologo nel pubblico (altra evidenza che si pone in completa antitesi con la ratio “privatistica” del bonus).

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ha predisposto una rete di strutture dedicate alla cura e al trattamento della sofferenza psicologica, articolate nei cosiddetti Dipartimenti di salute mentale (Dsm), istituiti per fornire prestazioni gratuite e un primo livello di assistenza.

Le strutture idonee a garantire a chiunque il godimento del diritto alla salute mentale psicologica, quindi, almeno su un piano puramente teorico, ci sono; di conseguenza, per poter anche soltanto pensare di risalire la china, più che predisporre mancette rivolte al settore privato e impiegabili una tantum, bisognerebbe  rendere pienamente operativo quel che già esiste. Il dramma, però, come hanno evidenziato gli psicoterapeuti  Gianluca D’Amico e Luca Sansò, è che l’architettura – potenzialmente virtuosa – predisposta dal SSN finisce per scontrarsi con almeno due problematiche di natura endemica: la prima è la carenza di informazioni (molte persone non sono al corrente della stessa esistenza di queste realtà, già presenti sul territorio ma sconosciute alla maggior parte della potenziale utenza); la seconda, quella più grave, è invece la carenza di quelle professionalità indispensabili per consentire alla macchina pubblica di funzionare a pieno regime. Secondo quanto dichiarato dal presidente dell’Ordine nazionale degli psicologi, David Lazzari, in Italia gli psicologi assunti nel SSN sarebbero appena 5mila.

Peccato che, per poter rimettere in sesto i Dsm e soddisfare la domanda crescente da parte di persone di ogni fascia d’età, servirebbe un aumento di spesa pubblica considerevole, pari a circa 3 miliardi, indispensabili per stimolare un’ondata di assunzioni nel pubblico e rendere operative le reti di assistenza: secondo quanto riporta Quotidiano Sanità, infatti, mancano all’appello 2mila psichiatri, 1.500 psicologi, 5mila infermieri, 1.500 terapisti della riabilitazione psichiatrica e altrettanti assistenti sociali. 

Non dovesse bastare, uno degli aspetti più drammatici di questa situazione è che, spesso, il vuoto generato dallo Stato finisce per essere colmato dalle reti di solidarietà – ad esempio, qualche mese fa su Rolling Stone  abbiamo raccontato la storia della Brigata Basaglia, un servizio di supporto nato per aiutare tutte le persone colte in contropiede dalle restrizioni del primo lockdown.

Anche l’atteggiamento irresponsabile degli enti locali ha contribuito ad aggravare il quadro: nel 2001, un documento sottoscritto all’unanimità da tutti i Presidenti delle Regioni aveva impegnato le giunte a destinare il 5% della spesa sanitaria alla salute mentale, ma gli impegni assunti sulla carta non sono stati rispettati. La fotografia che scaturisce dalla più recenti rilevazioni Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica è impietosa: gli investimenti risultano insufficienti in 18 regioni su 20 – si collocano al di sopra della soglia del 5% soltanto le province autonome di Trento e Bolzano, mentre l’Emilia Romagna, con il 4,93% è l’unica regione sostanzialmente aderente all’impegno e l’Umbria (4,65%) è l’unica che si pone al di sopra del 4%.

Un salasso confermato anche dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 22 del 2022, relativa alle problematiche delle liste di attesa per l’accesso alle cosiddette Rems (Residenze per le misure di sicurezza), la Consulta ha messo in luce una spesa percentuale per la salute mentale regredita al 2,9% del fondo sanitario nazionale.

Quando il malessere è sistemico, la risposta non può essere di natura privata (come nel caso del bonus), ma per forza di cose collettiva: la tutela della salute mentale deve diventare un argomento di interesse per l’opinione pubblica, l’ago della bilancia dell’azione politica dei governi, uno dei parametri in base ai quali giudicare il loro operato e la loro eventuale riconferma.

E, se i partiti non vorranno intestarsi esplicitamente questa battaglia, dovrà farlo la società civile: superare l’individualizzazione e la depoliticizzazione dei problemi di salute mentale è un obiettivo difficile, ma possiamo sperare di raggiungerlo soltanto agendo come comunità.