La prima premier donna, l’astensionismo record e altre certezze di queste (folli) elezioni | Rolling Stone Italia
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La prima premier donna, l’astensionismo record e altre certezze di queste (folli) elezioni

La chiamata alle urne è finita, ma abbiamo già qualche sicurezza: Meloni ha stravinto, Matteo Salvini è un (completo) disastro, il PD è ai minimi storici, non poter votare a distanza nel 2022 è ridicolo e soprattutto, il 36% degli italiani non crede più alla politica (e, forse, ha pure ragione)

La prima premier donna, l’astensionismo record e altre certezze di queste (folli) elezioni

Foto di Riccardo Fabi/NurPhoto via Getty Images

A pochi minuti dalla conclusione della campagna elettorale più veloce e schizofrenica della storia repubblicana, possiamo tirare alcune somme.

Giorgia Meloni ha stravinto

Partiamo dal segreto di Pulcinella: Giorgia Meloni ha stravinto e, salvo colpi di scena clamorosi, riceverà dal Presidente della Repubblica l’incarico di formare un governo. Per la leader della coalizione di destra, le previsioni delle ultime settimane si sono rivelate più che azzeccate: stando alle ultime proiezioni (per le percentuali definitive dovremo aspettare domani mattina), Fratelli d’Italia è nettamente il primo partito italiano, con il 26% delle preferenze – un risultato clamoroso, se pensiamo che, nelle elezioni del 2018, aveva ottenuto un modestissimo 4%. Meloni si è confermata una politica abilissima e risoluta, capace di non inciampare in eventuali ambiguità e ricacciando ogni polemica possibile relativa al suo passato: ha rinchiuso nel cassetto la sua antica simpatia per Putin e sposato la causa dell’atlantismo, ha flirtato con il governo Draghi pur rimanendo all’opposizione e ha dato segnali di coerenza che gli elettori, evidentemente, hanno apprezzato. Più di tutto, ha saputo capitalizzare sulle fragilità di Lega e Forza Italia relative alla guerra in Ucraina (Salvini non ha saputo distaccarsi dal suo passato filoputiniano e Berlusconi non ha mai condannato esplicitamente Putin, suo sodale di antica data, ma anzi, è giunto addirittura a difenderlo) occupando, intelligentemente, uno spazio decisivo: quello della “destra atlantista”, allineata agli interessi americani e immune da qualsiasi infiltrazione russa. Nel frattempo, le prime pagine dei giornali, dall’estero, cominciano a parlare apertamente di fascismo e a prefigurare scenari drammatici per il Paese. Prendiamo, ad esempio, il titolo della breaking news della CNN: Giorgia Meloni si avvia a essere la premier più a destra in Italia dai tempi di Mussolini. Che dire: se, dall’interno, la sensazione è spiacevole, vista da fuori è ancora peggio. Prendiamo un respiro, rilassiamoci e andiamo avanti: la nostra democrazia ha i giusti anticorpi per resistere a onde d’urto peggiori di questa. 

Matteo Salvini è un disastro

Se, a destra, Meloni sorride, lo stesso non si può dire per Matteo Salvini, riuscito nell’impresa di raccogliere percentuali a una cifra (per il momento, la Lega si aggira attorno a un misero 8,5%, appena sopra una Forza Italia data per morta da almeno dieci anni: il nulla) per un partito che, tre anni fa, era saldamente il preferito dagli italiani. Dallo strappo del Papeete in poi, la gestione di Salvini è stata un disastro, una corsa verso il baratro che, nel suo atto finale, rischia di consegnare il Carroccio all’irrilevanza. I clamorosi scivoloni sui suoi legami con Putin, le improbabili “missioni di pace” di cui si è reso protagonista nelle prime settimane della guerra, quella maglietta made in Cremlino sbattutagli in faccia senza pietà in Polonia, una campagna elettorale fondata (quasi) totalmente sull’abolizione del canone Rai, manco fossimo nel ’93: tutto sbagliatissimo.

Il Partito Democratico ha sbagliato tutto

Veniamo al PD, che potrebbe aver raggiunto il risultato più disastroso della sua intera storia, attestandosi attorno a un 18% che ha il sapore della (completa) disfatta. La strategia di Letta è stata una sciagura: prima lo strappo della coalizione con Calenda, poi la decisione di impostare un’intera campagna elettorale sul frame incessante della “lotta allo spauracchio del fascismo” (giusta, per carità, ma largamente insufficiente: per vincere le elezioni, serve decisamente di più) e sulla promessa di riportare Draghi al governo (senza, però, l’assenso del diretto interessato). Malissimo: da domattina, il Nazareno dovrà avviare un (serio) processo di riflessione e auto–critica. Il primo nodo da sciogliere è proprio quello della narrazione che si intende proporre all’elettorato attivo: l’esperienza fallimentare dell’antiberlusconismo avrebbe dovuto suggerire ai Dem che modellare l’intera campagna elettorale su un manicheismo stantio, rievocando la logica del “bene contro il male”, nella corsa al voto non premia. Per convincere gli elettori, specialmente i più giovani, bisogna parlare seriamente di crisi climatica, diritti civili, istruzione e politiche del lavoro, non fabbricare grafichette instagrammabili: del #guancialetuttalavita non importa niente a nessuno.

Alla fine, Calenda ha avuto ragione

Passiamo a Calenda e al miracolo di riuscire a portare un soggetto politico giovanissimo – fino a qualche settimana fa non esisteva neppure – al 9%. Per tanti osservatori la sua sovraesposizione su Twitter, i toni poco concilianti a cui ci ha abituati e una generale tendenza al bisticcio sui social avrebbero potuto giocare a suo sfavore. E invece no: il Terzo Polo Calendian–renziano ha rispettato le previsioni, centrando comodamente l’obiettivo prefissato. Il leader di Azione non è una meteora: sarà uno dei protagonisti della politica dei prossimi anni.

La svolta “a sinistra” di Giuseppe Conte ha funzionato

Non possiamo non dedicare un paragrafetto alle doti da prestigiatore di Giuseppe Conte, che è riuscito a compiere una metamorfosi radicale: nello spazio di appena tre anni, è passato dal rappresentare il Presidente del Consiglio del governo gialloverde, quello più a destra dell’Italia Repubblicana (finora, of course; da domani si vedrà) a calarsi nei panni di una specie di emulo di Mélenchon in salsa nostrana, impostando tutta la propria retorica su temi che, almeno in teoria, dovrebbero essere cari alla “sinistra–sinistra” (dal reddito minimo alla difesa del reddito di cittadinanza) e guadagnando i consensi di quella parte di Paese contrario all’invio di armi in Ucraina. Il risultato lo ha premiato: 17,5%, quasi come il PD e potenzialmente decisivo negli equilibri parlamentari. Se, come sembra, passerà questa legislatura all’opposizione, potrebbe addirittura occuparlo definitivamente, quello spazio a sinistra.

Il voto dei fuori sede è un problema serio

Tra i tanti paradossi del voto che emergono nella letteratura economica e politica, c’è quello relativo all’astensione: perché non andare a votare se il costo del voto è così basso? Ebbene, in realtà per qualcuno votare costa, e anche molto: si tratta di coloro che studiano o lavorano “fuori sede”. Le esenzioni per i treni sono difficilissime da ottenere e, nel mondo reale, non tutti sono disposti a percorrere chilometri e chilometri per esercitare il proprio dovere e, magari, rischiare di arrivare in ritardo in ufficio il lunedì, con annessa ramanzina da parte del datore di lavoro. In Italia le persone che studiano o lavorano in località diverse da quella di residenza ammontano a 4,9 milioni, una quota pari a più del 10% degli aventi diritto: per questo segmento di cittadinanza, votare non è affatto un fatto scontato, ma un sacrificio che richiede grossi investimenti in termini di tempo, denaro ed energie nervose. Questo cortocircuito deve essere risolto il prima possibile: la Costituzione parla chiaro quando statuisce che la Repubblica si impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Bene: fateci votare in maniera sostenibile, perché non se ne può più.

Non crediamo più nella politica

Per finire, il dato più doloroso in assoluto: non crediamo più nella politica (intesa nel senso più nobile del termine, ossia come unico mezzo possibile per migliorare la qualità delle nostre vite). Neppure la ripetizione ossessiva delle massime più gettonate («Occupati di politica, o la politica si occuperà di te»; «Il voto è un dovere civico») si è rivelata utile per portare gli italiani alle urne. I numeri sono aberranti: ha votato solo il 64% degli italiani, a fronte del 74% delle elezioni per il Parlamento del 2018. I numeri sono preoccupanti, se teniamo conto della congiuntura attuale: milioni di cittadini hanno preferito non contribuire al rinnovo delle Camere in una situazione delicatissima, una di quelle in cui la politica servirebbe come il pane. Stiamo vivendo una guerra vicinissima ai nostri confini, scontando i primi effetti di un’inflazione pesantissima che assottiglia lentamente il nostro potere d’acquisto, affrontando l’ultima fase di una pandemia che tutti, da destra a sinistra, sembrano aver dimenticato, osservando da vicino lo spettro di una crisi del gas sempre più visibile e, last but not least, siamo reduci da un’estate di disastri climatici che ha dimostrato una volta di più come affrontare il nodo del riscaldamento globale e della riduzione delle emissioni inquinanti debba rappresentare la priorità di ogni agenda politica che si rispetti. In una situazione del genere, eleggere un Parlamento capace di sostenere un governo in grado di limitare i danni dovrebbe essere la prima priorità di ogni avente diritto. E invece no, urne svuotate. Un calo di dieci punti percentuali che deve far riflettere una classe politica, evidentemente, troppo autoreferenziale e scollegata dalla realtà.