La prima intervista di Silvia Romano: «Il velo per me è simbolo di libertà» | Rolling Stone Italia
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La prima intervista di Silvia Romano: «Il velo per me è simbolo di libertà»

La volontaria ha parlato per la prima volta del suo rapimento e della sua conversione all'Islam con Davide Piccardo, direttore del giornale online 'La Luce" ed esponente di spicco della comunità islamica lombarda

La prima intervista di Silvia Romano: «Il velo per me è simbolo di libertà»

Pier Marco Tacca/Getty Images

«Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossarlo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. La libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale». Silvia Romano, la volontaria milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e rimasta prigioniera dei terroristi in Somalia per un anno e mezzo, racconta per la prima volta la sua conversione in un’intervista concessa a Davide Piccardo, direttore del sito La luce, portavoce del coordinamento delle moschee di Milano e della Brianza, esponente di spicco della comunità islamica lombarda, a cui Silvia si è avvicinata dal giorno del suo ritorno a Milano, e dell’Ucoii (l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, fondata nel 1990 dal padre Hamza Roberto Piccardo).

«Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo», dice Silvia che, dopo la conversione ha scelto il nome Aisha. «Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha, nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo».

Afferma che quando vedeva «le donne col velo in via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo (…). Io non avevo paura del diverso e nemmeno ostilità, ma quel pregiudizio negativo c’era. Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma sì, il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l’Islam, pensa queste cose. All’epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l’Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere».

La cooperante spiega che prima della partenza per il Kenya per un periodo di volontariato per conto dell’associazione Miele era «completamente indifferente a Dio, anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male … quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore. Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando – appunto – mi confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri».

Dopo il rapimento nel villaggio di Chakama, Silvia Romano racconta di aver cambiato idea sulla religione: «Più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c’era e ci dovevo arrivare. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso. Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui. Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino.». Ricorda di aver chiesto ai suoi carcerieri un Corano per poter leggere e ingannare il tempo: «Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab!”, dice, accennando al gruppo terroristico che l’ha tenuta prigioniera. «Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell’esistenza di Dio».

Un altro momento importante per la ragazza è stato «a gennaio, ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia; gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui. Quando provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere».