Dopo anni di accanimento terapeutico, la travagliata vicenda di Alitalia si è conclusa nel peggior modo possibile, segnando uno dei più clamorosi fallimenti dell’interventismo di Stato italiano. Venerdì scorso la storica compagnia di bandiera è stata definitivamente rimpiazzata da una nuova società, ITA Airways, posseduta al 100% dal Ministero dell’economia e delle finanze.
L’accordo che ha reso possibile la nascita di ITA – che ha visto coinvolti il governo italiano e la Commissione Europea – ha posto come condizione per l’avvicendamento una netta “discontinuità economica” tra la vecchia e la nuova società; una discontinuità che, come da copione, si è tradotta in un drastico ridimensionamento: la flotta è stata sostanzialmente dimezzata (52 aerei e appena 2.800 dipendenti, contro i quasi 11mila di Alitalia) e per i lavoratori della vecchia compagnia si prospettano tempi difficili – 7356 persone non sono state assorbite dalla nuova società e sono state messe in cassa integrazione per due anni, durante i quali dovranno provare a cercare un nuovo impiego.
Al dramma sociale fa riscontro uno sperpero di denaro pubblico da record: secondo un report di Mediobanca, Alitalia è costata ai contribuenti italiani circa 13 miliardi di euro; negli ultimi 45 anni ha chiuso i bilanci in attivo soltanto tre volte, di cui l’ultima vent’anni fa, quando la società olandese KLM fu condannata al pagamento di una penale da 250 milioni per porre fine anticipatamente a una join venture– durata pochissimo – con la compagnia di Stato italiana.
Quando Alitalia vide la luce nel 1947, i suoi destini erano già legati indissolubilmente allo Stato: il 60% delle quote della società era infatti detenuti dall’IRI, l’istituto per la ricostruzione industriale – il fulcro dell’intervento pubblico nell’economia italiana – mentre in minoranza c’era la Biritish European Airways, antenata dell’attuale British Airways.
La nascita della prima compagnia aerea italiana aveva un’enorme importanza dal punto di vista simbolico: rappresentava il frutto più significativo di un Paese che cercava di rinascere dalle lacerazioni economiche e industriali del secondo Dopoguerra. Dopo una prima fase di rodaggio, nel 1948 la compagnia diventò intercontinentale, inaugurando la vocazione transnazionale con lo storico volo Milano-Buenos Aires.
La prima fase di Alitalia fu un periodo felice e di spensieratezza che andò avanti fino agli anni Sessanta: la società godeva di un sostanziale monopolio dal punto di vista interno, gli italiani erano ben felici di ricorrere ai suoi servizi e divenne famosa in tutto il mondo per la professionalità delle sue maestranze. Una compagnia elegante e con margini di crescita significativi, che vestiva le hostess con divise firmate Laura Biagiotti e rappresentava un unicum in Europa, dato che era l’unica a volare con motori a reazione.
Nel 1970, con la consegna del primo Boeing 747-100, la compagna diede inizio a un processo di strutturazione del brand che sfociò nell’adozione dell’iconica “A” del marchio attuale, radicandosi ulteriormente nell’immaginario collettivo nazionalpopolare. Tuttavia, il decennio 1987 – 1997, con la liberalizzazione del trasporto aereo, stravolse completamente il quadro: le compagnie low cost iniziarono a sottrarre ad Alitalia fette di mercato considerevoli giocando a ribasso, costringendo la società ad adeguarsi a un regime di concorrenza precedentemente sconosciuto al contesto domestico – nel periodo antecedente il settore era infatti fortemente regolamentato, con tariffe imposte tramite accordi bilaterali tra gli stati.
Questo lento declino che subì un’accelerazione nel 1997, quando fu potenziato il terzo pacchetto di misure di liberalizzazione che consentì a tutte le compagnie aeree che possedevano una licenza comunitaria di eseguire rotte nazionali in tutti i paesi dell’Unione Europea. L’apertura dei mercati colse in contropiede un’azienda pubblica a trazione statale totalmente impreparata alla concorrenza, che provò ad attivare le adeguate contromisure, prima tentando una join venture con l’olandese KLM che, almeno in una prima fase, aveva tutto l’aspetto di una soluzione win-win (sembravano completarsi a vicenda: Alitalia era ancora molto solida sulle tratte nazionali, mentre KLM aveva un’esperienza maggiore nei voli intercontinentali).
Tuttavia, il matrimonio ebbe vita breve: la società olandese aveva posto una conditio sine qua non per il mantenimento della partnership, ossia lo spostamento dell’hub principale di Alitalia da Fiumicino a Malpensa; un mutamento che fu avversato dalla politica e dai sindacati – dato che KLM aveva in cantiere anche pesanti tagli sul personale. Indispettita dalle lungaggini burocratiche e dalle intromissioni della politica, KLM diede recesso dall’accordo nel 2000, pagando una penale monstre di 250 milioni di euro pur di scrollarsi di dosso il fardello di un cattivo affare.
Un anno dopo, con l’Undici Settembre, le perdite di Alitalia divennero insostenibili e una parte di politica iniziò a pensare a una privatizzazione: nel 2006, la maggioranza del capitale della società stava per essere acquisita da Airfrance, ma Silvio Berlusconi – che si trovava nel pieno della propria campagna elettorale – decise di salvaguardare la compagnia e di preservarne l’italianità. L’azienda fu rilevata da un gruppo di imprenditori che passarono alla storia come “capitani coraggiosi” e la cui gestione ben poco virtuosa portò a un ulteriore ridimensionamento della flotta – una scelta presa anche per offrire una visione alternativa a quella del suo avversario dell’epoca, Romano Prodi, che invece era favorevole all’opzione della privatizzazione.
L’ultimo tentativo fu quello di Ethiad, che nel 2014 acquisì il 49% di Alitalia per 565 milioni di euro, ma non fu sufficiente per risollevare le sorti dell’azienda. Il passo successivo fu quello di progettare una ricapitalizzazione da due miliardi di euro, che però fu bocciata dai dipendenti di Alitalia con un referendum nel 2017: la società entrò in amministrazione straordinaria, e Etihad lasciò la scena.
Ad aprile, Mario Draghi ha riassunto in poche parole l’essenza di Alitalia, una compagnia che in 47 anni di storia è stata prima la delizia di una nazione affamata di rinascita e poi la croce del capitalismo di Stato italiano. “La considero come una cosa di famiglia, anche se un po’ costosa”, ha detto. 12,6 miliardi in 45 anni, per l’esattezza.