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La Lega delle Leghe, presto Lega delle Beghe

Dalle sei “leghine” regionali al sogno internazionalista di Pontida. Ma chi risponderà all'appello?

La Lega delle Leghe, presto Lega delle Beghe

Era il 4 dicembre del 1989 nello studio del notaio Giovanni Battista Anselmo, a Bergamo. Presenti Umberto Bossi, Franco Castellazzi e Francesco Speroni (per la Lega Lombarda), Franco Rocchetta e Marilena Marin (per la Liga Veneta), Gipo Farassino (per Piemònt autonomista), Bruno Ravera (per Union ligure), Giorgio Conca e Carla Uccelli (per la Lega emiliano-romagnola) e Riccardo Fragassi (per Alleanza toscana), quel giorno nasce ufficialmente la Lega Nord, come raccontano Adalberto Signore e Alessandro Trocino in Razza padana (Bur, 2008).

Sarà che non furono coinvolte sette Leghe, ma soltanto sei. Sarà che lo Stivale non era ancora neanche a metà della sua estensione. Fatto sta che quella Lega, nata da sei Leghe, per molti anni prese tanti voti ma non avanzò territorialmente con la velocità della celebre calzatura della favola. Eppure, almeno nelle intenzioni, anche quella era già di fatto una Lega delle Leghe transnazionale – sì, nel mondo parallelo, nel mondo verde che allora aveva ancora come omphalos Gemonio, le Regioni erano chiamate “nazioni”. Evidentemente l’Umberto, che pure da mesi, in ogni intervista, si affanna a manifestare nei confronti del ruspista felpato lo stesso affetto che legava Stalin a Bucharin, non ha seminato invano. La Lega delle Leghe: niente di nuovo sotto il sole delle Alpi, che peraltro è nel frattempo diventato un bel sole mediterraneo. Internazionalismo ieri, internazionalismo oggi – ma l’internazionalista non era Trockij? Che cosa c’entrano allora Stalin e Bucharin? Beh, adesso non facciamo i professoroni che abitano nell’attico in centro, che tanto anche Vladimir Putin, a Mosca, frulla il Baffone, lo zar Nicola II, la Chiesa Ortodossa e Michail Kalašnikov e poi ne distilla un energy drink turborusso con cui stravince le elezioni.

Peraltro, al di là degli affratellamenti cosiddetti “internazionali” tra Lombardia e Liguria e tra Piemonte e Toscana siglati con successo davanti al notaio, già la Lega di Bossi aveva tentato di intrecciare anche rapporti internazionali veri e propri. Ma i problemi erano iniziati già a Chiasso. Certo, la Lega dei Ticinesi fondata proprio a imitazione di quella padana da Giuliano “Nano” Bignasca, e poi condotta a notevoli successi nella Svizzera di lingua italiana, era davvero molto simile all’originale, non soltanto nel nome.

Ma l’idillio transnazionale si incrinava periodicamente su un punto decisivo, l’insofferenza da parte dei ticinesi, e segnatamente da parte dei leghisti ticinesi, nei confronti di quei terroni di Varese, Como e Sondrio che ogni giorno dilagavano e dilagano in Svizzera per lavorare: i famigerati frontalieri, accusati di “rubare il lavoro” e di innescare il dumping salariale, accettando paghe inferiori a quelle abituali per i cittadini della Confederazione. Il secondo punto del Decalogo della Lega dei Ticinesi, promulgato nel 2011, due anni prima della scomparsa di “Nano” Bignasca, era chiarissimo: «Al massimo 35mila frontalieri, confinati nei settori dove effettivamente la forza lavoro residente non basta a coprire la domanda» (sì, “confinati”!). Ma le frizioni erano già state notevoli nel 2009, quando il quasi-leghista Tremonti si inventò lo scudo fiscale. In un’intervista rilasciata a chi scrive, l’allora presidente a vita della Lega dei Ticinesi spiegò che se l’Italia si impuntava nel tentativo di riparare le falle della propria raccolta fiscale, Bellinzona avrebbe attuato ritorsioni sui frontalieri: «Se Tremonti non la smette, ogni mattina in dogana ci mettiamo a controllare tutte le macchine, vi controlliamo anche l’Arbre magique, e la coda intanto arriva fino a Milano», così Bignasca.

Quando a Pontida risuonava ancora la parola secessione e Roma era ancora ladrona, la Lega tentò di sollecitare alleanze con altri movimenti indipendentisti in giro per l’Europa – si ricorda una t-shirt salviniana, un’antenata delle felpe, con le bandiere basca e catalana. Ma – forse per diffidenza nei confronti dell’Union ligure o della Lega emiliano-romagnola, forse per qualche perplessità nei confronti di un movimento per l’indipendenza della Padania che schierava nel governo di Roma ladrona nientemeno che un proprio ministro dell’Interno – a Bilbao, a Barcellona, a Belfast e nelle altre capitali delle terre irridente con cui Gemonio avrebbe voluto gemellarsi non si è mai manifestato un fraterno interesse per la Lega Nord.

Più amichevoli furono altri rapporti internazionali, ad esempio quello con il carinziano Jörg Haider, l’allora leader della Fpö, il Partito liberale austriaco. «È la nostra stella polare», diceva Mario Borghezio. Ma anche lì non durò molto. Pochi mesi dopo, con efficace brevitas, Umberto Bossi chiuse la questione: «Haider è un piccolo nazista». Intanto, qualche anno dopo, ascoltato a sua insaputa da un microfono della tv francese Canal+, proprio Borghezio continuava lo sforzo transfrontaliero consigliando sottovoce, e in francese, i militanti di Nissa Rebela, un partitino rivierasco della Costa Azzurra: «Bisogna insistere molto sul lato regionalista del movimento… È un buon modo per non essere classificati immediatamente come fascisti nostalgici, bensì come una nuova forza regionalista, cattolica, eccetera… Ma, dietro, siamo sempre gli stessi».

Ora che la Lega non è più Lega Nord, perché #primagliitaliani, l’insistenza sul lato regionalista non serve più e i popoli da liberare attraverso una Lega delle Leghe, non sono più quelli delle terre in cerca di indipendenza e di riconoscimento internazionale – l’Abcasia, la Lapponia, l’Isola di Man, la Contea di Nizza eccetera – con cui la nazionale di calcio della Padania si gioca tuttora la ConIFA World Football Cup (terzo posto nell’edizione del 2018, appena conclusa). Ora i popoli da liberare, sul modello dello Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, la cui efficacissima propaganda ha condotto il Paese alla Brexit, sono gli italiani, i francesi, gli ungheresi, gli austriaci, cioè popoli già provvisti di uno Stato. Ma la Lega delle Leghe da che cosa dovrebbe dunque liberare questi popoli? Ma dall’Europa, appunto!, come ha fatto lo Ukip. E dai clandestini, dalle ong che ormai assurte, in pochi mesi, a sinonimo di “male assoluto”, dai banchieri e dagli scherani di Soros che puntano alla “sostituzione etnica” e soprattutto dai saputelli pallosi che non sono capaci di condensare la complessità del mondo contemporaneo nei 280 caratteri di un tweet o, meglio ancora, nei dieci-dodici caratteri che ci stanno su una felpa nello spazio tra un’ascella e l’altra.

Quali sarebbero quindi gli interlocutori internazionali – pardon: gli interlocutori delle “potenze straniere”, in ossequio alla lingua neodannunziana del Salvini (copyright Maurizio Crippa) con cui creare quella Lega delle Leghe di cui Matteo si sente già leader? I partiti sovranisti e populisti sparsi per l’Europa. Ma bisogna essere velocissimi. Trovi un interlocutore e, puf!, ha già cambiato nome o partito. Lo Ukip inglese? È stata davvero una big thing: ha imposto la Brexit nell’agenda politica britannica e, incredibile a dirsi, l’ha anche ottenuta a furor di populismo. E poi? Centrato il bersaglio grosso, il grande capo Nigel Farage si è chiamato fuori dal gioco e il movimento è imploso: cinque leader in un anno e mezzo e repentina scomparsa dall’orizzonte elettorale. Ciao, Ukip.

Il Front National francese di Madame Le Pen? Fermi! Adesso si chiama Rassemblement National e al Parlamento europeo ha già perso un terzo dei suoi eletti nella grande vittoria del 2014, tra cui Florian Philippot, che ha fondato il suo partito Les Patriotes – non robetta: Philippot era il braccio destro di Marine Le Pen, lo stratega della “normalizzazione” del Front National. In Germania c’è invece Alternative für Deutschland, guidato da Frauke Petry. Ah, no, la Petry ha nel frattempo lasciato il movimento e ha fondato un suo movimento, Die blaue Partei, il Partito Blu, che non si sa che esiti elettorali possa avere ma almeno è ton sur ton con il nuovo cromatismo della Lega salviniana. Ci si potrebbe rivolgere al polacco Janusz Ryszard Korwin-Mikke, che è un bel freak e che le spara grossissime, altro che political correct da salotto, specie sulle donne a cui andrebbe tolto il diritto di voto perché non sono mica tanto intelligenti e comunque della politica se ne sbattono. Korwin-Mikke è il leader del Congresso della Nuova destra, un partito che a Strasburgo fa già parte dello stesso gruppo parlamentare Europa delle Nazioni e della Libertà di cui fa parte anche la Lega. Anzi, no, update!, Korwin-Mikke un paio di anni fa si è fatto il suo partitino, che si chiama Wolność (Libertà).

In realtà, i possibili interlocutori in Europa sono molti: sul Mediterraneo (in Grecia, in Francia), a nord (i populisti di destra scandinavi, dai Veri Finlandesi ai Democratici Svedesi) in centro (in Germania, AfD, e in Olanda, il partito di Geert Wilders) e a est (Viktor Orbán e i suoi alleati di Visegrád). In più, ci sono zio Donald e zio Vladimir su cui fare sponda.

Ma il problema è che tutti costoro, essendo sovranisti, e quindi esclusivisti, hanno tutti una propria agenda che punta al particulare e difficilmente si addentella, se non in casi particolari, con le agende dei propri simili stranieri (vedi l’immigrazione). Ed essendo populisti, tutti costoro cambiano con la velocità del vento, per lisciare sempre il popolo dal verso giusto del pelo: basta immaginare tutte le svolte, spesso curve a gomito e inversioni a “u”, che la Lega, quella nostrana, ha percorso nel corso degli anni, un giorno sì e l’altro pure, e proviamo a moltiplicarle per tutte le Leghe della Lega delle Leghe: è la ricetta dell’entropia. Ed essendo persone che “parlano chiaro”, senza fisime di correttezza linguistica, tutti costoro una volta la sparano davvero troppo grossa (e vengono emarginati dal loro stesso partito, vedi Le Pen père), un’altra volta la sparano troppo aggressiva e litigano col vicino, un’altra volta ancora c’è qualcuno che la spara ancora più grossa di loro e li manda in branda come delle educande. E così la Lega delle Leghe rischia di essere la Lega delle Beghe.

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