La competizione tra Cina e Stati Uniti passa anche dalla pesca del tonno | Rolling Stone Italia
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La competizione tra Cina e Stati Uniti passa anche dalla pesca del tonno

La geopolitica può essere tanto banale quanto una spesa al supermercato

La competizione tra Cina e Stati Uniti passa anche dalla pesca del tonno

Foto di Jeoffrey Maitem/Getty Images

La geopolitica può essere tanto banale quanto una spesa al supermercato? Tanti direbbero di no, ma il complesso rapporto che lega Cina e Stati Uniti ha molte più ramificazioni di quelle che normalmente immaginiamo. Conosciamo tutti la vicenda di Huawei, la società tecnologica cinese a cui l’ex presidente Donald Trump ha tentato di segare le gambe. Ma la competizione tra i due colossi economici del nostro tempo prende spesso pieghe anche inaspettate, come quella di una scatoletta di tonno.

Infatti, la pesca del tonno sta pian piano diventando uno dei molti terreni del confronto a distanza tra Pechino e Washington. Nel 2019 le attività ittiche incentrate sulla pesca di questa specie avevano il proprio fulcro nell’oceano Pacifico: per la precisione, il 55% di tutto il tonno pescato al mondo proviene dal Pacifico centrale e occidentale. In queste acque a dominare l’industria sono i pescherecci asiatici a cui si accompagnano quelli statunitensi. Nell’ultimo decennio però la Cina ha registrato una crescita imponente del numero di pescherecci, che sono arrivati a toccare le 17.000 unità per la pesca d’altura.

Il tonno e la pesca in generale sono una risorsa importantissima per le piccole nazioni insulari del Pacifico. Per alcune di esse, le licenze e le tasse di accesso per la pesca del tonno rappresentano circa il 40% del proprio reddito nazionale. Per questo motivo, il Trattato del Pacifico meridionale sul tonno è da almeno tre decenni una pietra angolare del rapporto tra Washington e i paesi del Pacifico. Il trattato stabilisce il diritto dei pescherecci statunitensi di avventurarsi nelle acque degli altri 16 paesi membri in cerca di tonno, ovviamente dietro il pagamento di un compenso: ad oggi, per entrare nella zona economica esclusiva dei paesi aderenti (cioè nelle acque che stanno entro le 200 miglia nautiche dalle loro coste), ogni peschereccio statunitense deve pagare $12.500 al giorno. Ora però l’amministrazione di Joe Biden vuole sfruttare questo accordo come strumento per portare avanti la propria agenda di politica internazionale.

Il trattato scade quest’anno e i negoziati per il suo rinnovo sono ancora in corso. Nel 2016, ancora sotto la presidenza di Barack Obama, gli Stati Uniti avevano considerato la possibilità di ritirarsi dall’accordo: nulla del genere è stato proposto quest’anno. Anzi, nessuno a Washington si è sognato di mettere in discussione l’utilità di un trattato che lega gli Stati Uniti a quasi tutte le nazioni del Pacifico. Il 12 luglio, in collegamento video con il Forum delle isole del Pacifico (PIF), la vicepresidente Kamala Harris ha annunciato un nuovo piano di aiuti per i piccoli paesi dell’Oceania: tra le varie misure di aiuto allo sviluppo risalta soprattutto l’aumento dei fondi destinati, secondo i termini del trattato sulla pesca del tonno, alla cooperazione marittima. Rispetto ai $21 milioni all’anno forniti oggi, gli Stati Uniti si impegnano a finanziare progetti contro il cambiamento climatico e contro la pesca illegale per un valore di $60 milioni l’anno per i prossimi 10 anni.

Gli Stati Uniti stanno lentamente riscoprendo i propri legami coi paesi del Pacifico, ma questa riscoperta non è per nulla disinteressata. Anche qui, ovviamente, c’entra molto la Cina e le sue iniziative per affermare la propria presenza nella regione. “In un momento in cui vediamo attori malevoli cercare di minare dalle fondamenta l’ordine internazionale basato sulle regole, dobbiamo restare uniti” ha detto Harris al PIF, in un discorso che accusava nemmeno troppo velatamente la Cina di essere un fattore destabilizzante nel Pacifico. Un messaggio che è stato raccolto da Semi Koroilavesau, ministro della pesca delle isole Figi e presidente di turno del PIF: “se da una parte continuiamo ad apprezzare lo spirito del trattato che consente l’accesso ai pescherecci e opportunità di sviluppo, dall’altro riconosciamo anche le potenzialità che il trattato offre per lo sviluppo dei nostri rapporti”. È la politica del tonno, che Washington intende sfruttare per rafforzare la propria posizione nell’area e contenere l’espansione dell’influenza cinese.

Oltre a quasi triplicare la somma per i progetti di collaborazione marittima e ittica, gli Stati Uniti hanno introdotto anche altre iniziative per convincere le nazioni del Pacifico che stare dalla parte di Washington è nel loro interesse. Qualche mese fa il Quad (il forum internazionale che raggruppa Stati Uniti, Australia, Giappone e India) ha annunciato di voler attivare un programma di monitoraggio satellitare per combattere la pesca illegale, un’attività che l’amministrazione di Biden ritiene essere principalmente responsabilità delle flotte di pescherecci cinesi. Un’accusa che l’ambasciata cinese a Washington ha respinto con forza. Ma le iniziative anti-cinesi non si fermano qui e a giugno Stati Uniti, Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Regno Unito hanno lanciato il partenariato Blu Pacifico, un programma di cooperazione su molteplici dossier (cambio climatico, trasporti, educazione, sanità, ecc) del valore di $2,1 miliardi indirizzato alle nazioni insulari dell’oceano Pacifico.

La Cina però non è meno attiva nella regione. Tra maggio e giugno il ministro degli esteri di Pechino Wang Yi ha compiuto un viaggio di alto profilo in numerosi paesi della regione, concludendo una serie di accordi bilaterali che spaziano dal commercio alla lotta al Covid. Poche settimane prima, ad aprile, Cina e Isole Salomone hanno firmato un importante accordo sulla sicurezza. Kiribati è un altro caso di successo per Pechino: nel 2019 il paese ha rotto i rapporti diplomatici con Taiwan e ha riconosciuto al suo posto la Repubblica Popolare, che in compenso ha aperto i cordoni della borsa.

Oltretutto l’anno scorso Kiribati ha anche decretato di voler aprire alla pesca le isole della Fenice, un arcipelago che fino ad oggi era un’area protetta riconosciuta come patrimonio dell’umanità UNESCO. L’area protetta era stata costituita negli anni 2000 dopo l’istituzione di un fondo fiduciario internazionale che consentisse al paese di rimediare ai mancati proventi della pesca, ma secondo il governo di Kiribati l’iniziativa non era più economicamente sostenibile. Con la riapertura dell’area protetta, il governo si aspetta di raccogliere circa $200 milioni l’anno in tasse sulla pesca e molti ritengono che i beneficiari di questa riapertura saranno in primo luogo i pescherecci cinesi in cerca di tonno.

La realtà però è che sia le avances cinesi che quelle di Harris suonano inautentiche a molti degli abitanti del Pacifico. Da un lato, Pechino a giugno si è dovuta scontrare con la riluttanza dei paesi della regione ad approvare il piano cinese di partenariato economico e sicuritario: presentato praticamente già pronto per la firma senza sostanziali consultazioni con i paesi del Pacifico, la proposta di creare un accordo multilaterale a guida cinese è naufragato. Una scelta comunque coraggiosa dal momento che Pechino è disposta a mettere sul piatto accordi commerciali e investimenti per stimolare l’economia. Da parte loro gli Stati Uniti non adottano un approccio molto diverso, proponendo soluzioni alle nazioni insulari senza in realtà aver ascoltato i loro bisogni: lo stesso discorso di Harris al PIF ha avuto luogo nonostante i paesi membri richiedessero che nessun paese esterno partecipasse.

I progetti proposti da entrambe le potenze tentano di nascondere l’ambizione geopolitica di espandere la propria influenza a scapito dell’altra parte. Le piccole nazioni del Pacifico, la cui sopravvivenza ad esempio è messa a rischio dal cambio climatico, preferirebbero invece che i loro bisogni venissero ascoltati a prescindere dalla geopolitica.