Jack Dorsey: il futuro di Twitter non sarà neutrale, ma una piazza punk libera dai nazisti | Rolling Stone Italia
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Jack Dorsey: il futuro di Twitter non sarà neutrale, ma una piazza punk libera dai nazisti

Il CEO di Twitter, un hipster di San Francisco diventato programmatore, si racconta in un’intervista esclusiva a Rolling Stone USA, tra il mito di Steve Jobs, la competizione con Zuckerberg e l’ammirazione per Elon Musk. «Elon è un buffone. Ma devi esserlo per pensare in grande».

Foto Jim Watson/AFP/Getty Images

Quando Jack Dorsey co-fondò Twitter nel 2006, non aveva idea che sia lui che i suoi colleghi stessero creando quella che sarebbe diventata una piattaforma universalmente accessibile, globale, senza confini e aperta 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, così che decine di migliaia di persone potessero urlargli addosso. In ogni caso, all’epoca, i miliardari della tecnologia erano ancora – almeno in alcuni gruppi – figure da ammirare, non simboli della paura da osservare con sospetto sia da destra che da sinistra. I social media hanno compiuto con fin troppo successo la loro missione distruttiva, hanno cambiato forma alle società in modi che facciamo ancora fatica a comprendere. Tutto ciò fa sì che gente come Dorsey, che di Twitter è stato CEO fino al 2015 (dopo un primo mandato dal 2006 al 2008), si trovi a lottare, in stile Apprendista Stregone, con un numero crescente di problemi sempre più complessi.

Nel corso di due incontri – uno a cena (pollo fritto, ostriche; l’unico pasto del suo veloce regime alimentare) alla Blue Ribbon Brasserie di New York, dove ha portato da casa una bottiglia di vino organico e a basso contenuto alcolico; l’altro in una sala conferenze dalle porte di vetro nel quartiere generale di Twitter a San Francisco – Dorsey ha affrontato questi problemi, parlato della sua vita, del suo lavoro, della sua carriera e delle sue idee. La sera della nostra conversazione era diretto verso l’aeroporto, pronto a partire per un viaggio di tre settimane in India e Myanmar. La sua decisione di passare del tempo in ritiro e a meditare in Myanmar – dove l’esercito commette atrocità contro la minoranza musulmana Rohingya – ha avuto ripercussioni significanti. Solo parlarne, nel secondo dei nostri incontri, ha causato gli unici momenti d’irritazione di un personaggio dal carattere incredibilmente quieto.

Jack Dorsey è, soprattutto rispetto a certi stereotipi che girano sulla Silicon Valley, un tipo particolarmente gradevole; stabilisce spesso un (particolarmente intenso) contatto visivo, ride di frequente, ha un’educazione eccellente. 42 anni, è un serio appassionato di musica (le masse di Twitter non sono rimaste particolarmente colpite quando ha detto che Kendrick Lamar è il suo “poeta preferito”), e soprattutto un’esteta digitale à la Steve Jobs. Ha anche seguito una traiettoria di carriera simile. Dopo aver lasciato Twitter nel 2008, ha co-fondato Square, un’azienda di pagamenti mobile ora multimiliardaria (è la ragione per cui riuscite a usare la carta di credito ovunque) – poi la sua vecchia azienda l’ha riportato indietro. Adesso è CEO di entrambe.

A San Francisco indossava jeans neri, scarpe da corsa per facilitare gli 8km di camminata da casa a lavoro, e un maglione di cachemire con cappuccio che, mi dice, ha più di tre anni. Il piercing al naso e la barba voluminosa – la stessa che portò un politico repubblicano a dire che non assomigliava affatto a un CEO – hanno più senso considerando la sua peripatetica vita pre-Twitter, quando studiava per fare illustrazioni botaniche e il massaggiatore, e sognava una carriera nel fashion design. Quanto segue è una versione ridotta delle nostre conversazioni.

Illustrazione di Jimmy Turrell. Fotografie utilizzate di Jim Watson/AFP/Getty Images

Non importa cosa scriverai su Twitter, qualcuno ti risponderà “Sì, ok, ma fai sparire i nazisti da Twitter”. È un segno dei tempi. 

Sì. Una volta, quando twittavo su Kendrick, la gente mi diceva “quando aumenti il prezzo delle azioni?”. Poi è arrivato il turno del tasto modifica. L’abuso delle nostre policy è un tema che di recente è sempre più importante. E si presenta sotto forma di gente considerata nazista, e della richiesta di rimuoverli. La gente non è soddisfatta dei nostri progressi. Non è semplice quanto suggerisce quella risposta, ma c’è ancora del lavoro da fare.

Tecnicamente essere un suprematista bianco non è causa di rimozione, giusto? Bisogna fare minacce specifiche? 

In realtà lo è. Se si dichiarano parte di un gruppo violento ed estremista, come il Partito Nazista Americano, sospendiamo gli account. Questi, però, non si proclamano nazisti. Se riuscite a dimostrarlo, e sarei felice di vedere come, e capire come mai non abbiamo ancora preso provvedimenti, allora… 



Posso confermare che ci sono nazisti su Twitter. 

Molte delle richieste di “rimuovere i Nazisti” dipendono dal fatto che noi agiamo solo dopo una segnalazione. La maggior parte degli utenti non fa segnalazioni. Vedono cose, ma è più facile twittare “fai sparire i Nazisti” che fare una segnalazione. Dobbiamo essere proattivi, ma gran parte del problema dipende dal fatto che dipendiamo innanzitutto dalle segnalazioni. Due anni fa, per esempio, era possibile segnalare solo se direttamente coinvolti con minacce o comportamenti abusivi. Adesso, invece, si può fare anche solo osservando.

Seth Rogen, preoccupato dai razzisti con account verificati sulla piattaforma, e dopo un breve scambio con te, ha scritto che “sembra che non te ne freghi un cazzo” del problema. 

Leggerlo è stato orribile. Gli ho mandato un messaggio privato, e abbiamo parlato al telefono. Mi ha detto: “Sono sorpreso… non ti ho attaccato personalmente. Credo che tu sia in buona fede, ma siete dei comunicatori orribili”. Sono d’accordo, abbiamo sbagliato con la comunicazione, non siamo stati chiari come avremmo dovuto, e non siamo stati sicuramente abbastanza trasparenti. Questo è un tema che ci sta molto a cuore. Ma dobbiamo affrontarlo in maniera scalabile. Questo non è un tipo di lavoro che si fa in una notte.

Per molto tempo il modello nella Silicon Valley era: “Noi siamo una piattaforma neutrale”. Ovviamente non è più così. Se Twitter non è solo una piattaforma, allora cos’è?

La gente guarda a Twitter come se fosse una piazza, quindi hanno aspettative alte come le avrebbero per uno spazio pubblico. Washington Square Park, per esempio – ho appena passato un’ora e mezzo lì, oggi. Mi sono seduto e ho fatto le mie telefonate, osservavo le persone. Succedono tante cose diverse a Washington Square Park. Ci sono turisti, studenti, videomaker, musicisti, artisti di strada, spacciatori d’erba, giocatori di scacchi. E c’è gente che fa dei comizi. Il parco è totalmente neutrale a quello che succede. Ma se ti fermi a questo, non capisci cos’è il parco davvero. Tutti si aspettano un certo grado di libertà d’espressione, e tutti controllano gli altri. Se qualcuno si mette a urlare con un megafono, la gente sta ad ascoltare. Questa persona potrebbe anche dire: “Ehi, idioti, sto parlando a voi, venite qui subito”. Se il suo comportamento sfocia nelle molestie, qualcuno direbbe “Ehi, non fare così. smettila”. E c’è la polizia del parco, che fa sì che tutti rispettino un certo standard di decenza.

L’esempio fa sembrare semplice affrontare le informazioni false. A volte sembra che il vostro approccio sia: “Se ci sono informazioni false, la natura di Twitter fa sì che quelle vere le sovrastino”. È corretto?

Beh, credo che a volte succeda proprio questo, ma non dobbiamo farne un modello. Non possiamo farci affidamento. Facciamo un esempio. C’è questo tweet, durante le elezioni del 2016: qualcuno pubblicò la foto di un codice che secondo lui era necessario per registrarsi e votare. Era disinformazione. Ma Twitter è costruito per dare più rilevanza ai tweet che smascheravano la disinformazione. Sono quelli i tweet più visti, non l’originale.

Che conclusioni ne hai tratto?

Potremmo star seduti e rimanere passivi, tipo, “Ok, siamo a posto”, perché la piattaforma si autocorregge. Quello che dobbiamo fare, invece, è trarne una lezione e capire come fare in modo che si ripeta. Non possiamo diventare arbitri della verità. Credo che sarebbe pericoloso. Allora cosa possiamo fare? Abbiamo deciso di concentrarci sulle informazioni fuorvianti, cioè quelle che cercano di portare qualcuno su una strada ben precisa. Il tweet sul voto era sicuramente disinformazione, ma ancora peggio portava le persone a fare qualcosa che poteva danneggiare la società e le persone stesse. Non penso che dovremmo dire “Il network si prende cura di se stesso”. Dobbiamo dire: “Come facciamo a determinare cos’è vero o falso, cosa è fuorviante?” Poi, come facciamo a fermare la diffusione di informazioni fuorvianti prima che raggiungano troppa visibilità?



Si parla dei social media come piattaforme disegnate per dare botte di dopamina, concepite per dare dipendenza. Quanto di tutto questo è vero per Twitter?

Sicuramente non avevamo questa intenzione. Abbiamo costruito Twitter innanzitutto perché volevamo utilizzarlo, perché ce ne siamo innamorati. C’è una dipendenza generale, indipendente da Twitter, verso quello che succede, verso le novità. I drogati di news sono una realtà, la gente ossessionata da queste cose è una realtà. Mi sembra un punto di vista superficiale. Non abbiamo mai disegnato il prodotto pensando, per esempio, “Come facciamo a creare dipendenza?”. Non mi sono mai fatto questa domanda, così come nessuno del mio team. Forse qualcuno l’ha fatta nell’azienda, anzi sono sicuro che in passato sia successo. Ma non è quello che vogliamo fare adesso, o nel futuro. Anzi, stiamo cercando di capire cosa succederebbe se rimuovessimo la possibilità di mettere “like”.

Un’idea che è stata accolta con rabbia, effettivamente. 
Si tratta semplicemente di rimuovere variabili. Che cos’è, oggi, che Twitter incentiva attivamente?
Non so la risposta. È quello che ci stiamo chiedendo proprio adesso. La domanda è, cosa succederebbe se nascondessimo i like a tutti meno che all’autore del tweet?



Tu hai un qualche tipo di dipendenza da Twitter? Lo controlli compulsivamente come facciamo noi altri?

In alcune occasioni lo faccio. Durante gli eventi, per esempio. La notte delle elezioni non mi sono fermato neanche un secondo, lo stesso durante una partita di baseball. Questo succede quando utilizzo la feature dei tweet recenti; tutto il resto del tempo uso i più rilevanti. So che suonerà assurdo, perché non siamo neanche lontanamente vicini a quello che sto per dire, ma quando chiudo l’app vorrei aver imparato qualcosa di nuovo. Siamo ancora troppo lontani. Se chiedessi a qualcuno dei clienti di questo ristorante: “Dopo aver chiuso Twitter, hai imparato qualcosa?”, la maggior parte risponderebbe no, o che ha letto qualcosa che sapeva già. Io vorrei che ogni singolo utente non sprecasse ore, giorni o minuti a consumare contenuto, ma piuttosto che siano avvertiti dell’esistenza di qualcosa che potrebbe insegnarli qualcosa o, allargando il concetto, di partecipare a una conversazione sul tema. Questo, secondo me, contribuirebbe al tema della salute. Per esempio, se lasciando Twitter mi sentissi più informato, sarei più felice. Adesso, invece, mi sento sopraffatto, perché non mi sembra di imparare nulla.

Negli ultimi anni siamo chiaramente passati da un “tecno-ottimismo” a un “tecno-pessimismo”. Che ruolo ha Twitter, in particolare, in questa battaglia? 

Credo sia positivo dare a tutti la possibilità di avere una voce. È positivo perché aiuta chi tradizionalmente una voce non ce l’ha. La cosa che mi rende più orgoglioso di Twitter è che sia diventato uno strumento con cui i gruppi più emarginati possono condividere la loro storia.



L’altra faccia della medaglia è che Twitter offre a personaggi pubblici, politici inclusi, la possibilità di mentire a milioni di follower, e di farlo senza filtri.

La domanda che ci stiamo ponendo adesso è: come fermare la diffusione di informazioni fuorvianti? Possiamo amplificare i messaggi di chi le contrasta. Abbiamo un team dedicato che si occupa di cercare il giusto equilibrio. Spesso, quando il presidente twitta, c’è un momento in cui mostriamo prospettive completamente differenti. La maggior parte delle volte il pubblico non vede quel tweet.



C’è qualcosa di intrinsecamente disordinato in Twitter? Il codice con cui è scritto non era pensato per arrivare a dimensioni così grandi? Poi ci sono tutte le implicazioni sociologiche, le implicazioni politiche…

L’espressione umana è disordinata. Ha effetti imprevedibili. Twitter ha permesso a tantissime persone di collegarsi e avere una voce. È come una canzone che suona all’infinito. Tra 50 anni, quando Twitter sarà ancora online e io non ci sarò più, il mio contributo sarà nullo rispetto a quello dato dalle persone che hanno usato la piattaforma. Abbiamo tutti la possibilità di cantare quella canzone. Quando non ci saremo più, la canzone continuerà a suonare. Credo sia per questo che molti personaggi del mondo hip-hop ci apprezzano. Hanno visto nei 140 caratteri un limite straordinario che gli ha permesso di scrivere delle rime. Il primo vero pubblico che abbiamo avuto era composto da comici, professionisti del ritmo e della sintesi, artisti hip-hop e giornalisti, che lavorano su ritmo e sintesi con i titoli. Una piattaforma disordinata era necessaria per catturare un modo d’esprimersi disordinato.

Come si contrasta la sfiducia dilagante di quest’epoca?

C’è molta sfiducia. Molta paura. Paura di aziende come la nostra. Paura del potere, ed è al 100% naturale. L’opinione pubblica ha paura di quello che la tecnologia è diventata, e di quello che può fare. C’è un bel capitolo in 21 lezioni per il 21esimo secolo, il libro di Yuval Noah Harari: “La tecnologia mi fa sentire irrilevante”. Se non riusciamo a essere trasparenti sulle nostre intenzioni e su quello che fa la nostra invenzione, allora stiamo alimentando questa paura. Dobbiamo comunicare in maniera tale da essere comprensibili per tutti, e oggi non lo siamo.



Come fai a non essere costantemente in agitazione? Qualcosa di terribile potrebbe diventare trending in ogni momento, una guerra potrebbe iniziare per colpa di un tweet…

Abbiamo un team globale. Credo nella loro capacità di prendere una decisione. Credo che possano fare le loro scelte senza che io intervenga o supervisioni tutto. Credo che tutti abbiamo una mentalità aperta. Credo che torneremo indietro a lavorare alle cose che abbiamo incasinato. E impareremo qualcosa dall’esperienza. Non ripeteremo gli stessi errori. Se invece parliamo di quello che succede sulla piattaforma, allora sono preoccupato. Sono un cittadino di questo mondo. Sento il peso dell’utilizzo della nostra piattaforma, e di come adesso venga sfruttata per fare cose di cui non vado orgoglioso.

Per esempio? 

Come creare delle bolle, o camere di risonanza. Non ne vado orgoglioso. È come se contribuissimo a una società più divisa. Di sicuro aumentiamo l’isolamento. Di sicuro rendiamo semplice confermare un pregiudizio. Abbiamo dato al pubblico un solo strumento, cioè seguire un account che confermerà al 90% qualunque pregiudizio. E non ti permette di vedere prospettive diverse. Contribuisce al tribalismo. Contribuisce al nazionalismo. E contrasta quello che invece dovrebbe essere importante, come il cambiamento climatico. Nessuna nazione di questo pianeta risolverà il problema da sola. Come impediremo che le intelligenze artificiali si prendano il nostro lavoro? Come fermeremo una guerra nucleare? Queste sono conversazioni globali, e dobbiamo andare in questa direzione. Adesso siamo diretti da tutt’altra parte.



Quando hai twittato i dati sulla tua salute, hai mostrato a tutti che dormi otto ore e mezzo a notte, e il pubblico ha letteralmente reagito dicendo “Beh, non dovresti dormire così bene”. L’implicazione è sempre la stessa, cioè che non ti importa di quello che succede. 

Possiamo dimostrare il nostro interesse solo cambiando il prodotto e risolvendo problemi. Quello che dico non ha nessuna importanza. Credimi, ci sono tante persone nel mio team che hanno a cuore questo mondo, la società e l’impatto che hanno i miei tweet su chi li legge, sugli azionisti che li leggono. Ma anche gli imprenditori li leggono. Mia madre li legge. Non voglio far pensare che il comportamento modello sia stare svegli 20 ore al giorno e lavorare senza sosta, perché non credo faccia bene alla salute. Insomma, sarebbe maniacale.

Vuoi dimostrare a tutti che è possibile gestire due aziende enormi e dormire bene la notte. 

Sì, è possibile, e voglio dimostrarlo a tutti. Detto questo, cerco di fare in modo che tutte le mie ore abbiano un significato. Per esempio, passare un’ora qui con te significa che non sto facendo altro. Vale la pena fare questo scambio? Mi faccio domande come questa ogni singolo giorno. Per questo guardo poca televisione. Ma quando voglio staccare un po’, lo faccio.

Parliamo del Myanmar. I critici sostengono che non saresti dovuto andare lì a causa del presunto genocidio compiuto dal governo.

Non sono d’accordo. Credo che dovremmo affrontare le cose spiacevoli. Prima di andarci, comunque, ne ho parlato con alcune persone. Sono andato a Ferguson (in Missouri) e qualcuno mi ha detto che non avrei dovuto farlo. Dobbiamo affrontare cose del genere. La prima cosa sorprendente che ho imparato in Myanmar è che lì Facebook è internet. Twitter è molto piccolo, quasi insignificante. La seconda è che tutti i monaci che ho incontrato avevano un cellulare. Molti dei monaci con cui ho parlato mi hanno detto che credono a tutto quello che appare sul telefono, tutto quello che arriva da Facebook. Ma io sono andato lì specificamente per meditare. Ho intenzione di tornare l’anno prossimo, e quello dopo ancora. Ho intenzione di parlare con la gente di quello che sta succedendo lì, e di come posso aiutarli. Bisogna iniziare da qualche parte. Il Myanmar è un paese a cui tengo molto.

Dorsey in Myanmar, foto via Twitter

Per il secondo anno consecutivo hai passato una settimana di meditazione silenziosa. Cosa significa per te?

Sono andato lì per praticare la concentrazione. È un’esperienza molto faticosa. Non si parla di religione, non si parla di spiritualità. È una pratica esclusivamente fisica. Ti siedi e ti dicono di focalizzare tutta la tua coscienza non sul respiro, ma sulla sensazione del respiro che passa attraverso il tuo corpo. È incredibile come abbia reso le cose più piccole della vita davvero, davvero enormi. Il sesto giorno del primo anno è stato il più difficile, perché guardandomi intorno pensavo: “Cavolo, tutti sembrano Buddha in questo momento. Tutti sembrano illuminati, e io non capisco”. Quella stessa notte, però, durante una lezione è diventato tutto chiaro anche per me. Mi sono sentito splendidamente. Era pura gioia, senza rumori.



La polemica sul Myanmar dimostra tra le altre cose che la sfiducia di cui parlavamo colpisce anche persone come te.

Sì, credo ci sia una crisi di fiducia. Ma la accolgo favorevolmente. Se non fossi nella situazione in cui sono adesso, se avessi ancora 21 anni, anche io sarei sfiduciato. Ero quel tipo di persona. So chi sono. Le persone attorno a me sanno chi sono. Non mi ha sorpreso la controversia sul Myanmar. Mi ha sorpreso che la gente fosse arrabbiata per il semplice fatto che meditassi. Che sembrasse un modo per farmi bello. Sì, sto cercando di imparare. È una cosa che mi innervosisce, perché demolisce qualcosa e il pubblico non proverà mai a sperimentarla. Io volevo condividere la mia esperienza, volevo che riecheggiasse per qualcun altro, perché non c’è altro da fare. 



Credo sia questo il senso di Twitter, in un certo senso. 

Sì. Inoltre, penso che molta gente veda la piattaforma come uno strumento per indignarsi. E per esprimere quell’indignazione. 



Si dice in giro che potresti essere un personaggio di Silicon Valley, la serie tv. Questo tipo di opinioni cambia il tuo modo di comunicare con il mondo?

Devo ignorarle. Come faccio a mettermi in contatto con qualcosa? Devo viverlo. Non dovrei fare queste cose? Sono forse esperienze che non dovrei avere perché lavoro nella tecnologia? Medito da 20 anni. 



Se a 12 anni qualcuno ti avesse detto che saresti diventato un multimiliardario proprietario di due aziende, cosa avresti pensato?

Mi sarebbe sembrato un risultato difficile da conquistare. Non so niente di come si gestisce un’immagine pubblica, e non sapevo che persona sarei voluto essere. Non lo sapevo, davvero. 

Quando eri giovane, ti immaginavi artista? 
Amavo disegnare. Amavo scrivere musica. Amavo creare. Ero quel tipo di persona. Non amavo granché il business. Non volevo diventare un CEO. Non volevo diventare un imprenditore. Volevo creare delle cose.



Ho letto che da bambino avevi problemi di linguaggio.

Sì, avevo un problema. Non riuscivo a pronunciare le parole. Ho fatto logoterapia per due anni. Mi ha reso timido. Non volevo parlare con nessuno, nemmeno con la mia famiglia. Poi ho iniziato la terapia e ho risolto gran parte del problema. È qualcosa a cui penso ancora molto – in questa conversazione avrò sbagliato la pronuncia di almeno quattro parole. Quando ero al liceo avevo una paura mortale di parlare in pubblico. Poi ho deciso che era ridicolo, e che avevo bisogno di uscirne, così mi sono iscritto alla squadra di dibattiti. Avevano una specie di gara: ricevevi un foglio bianco con su scritta una parola, e avevi 5 minuti per scrivere un discorso. Era la cosa più spaventosa del mondo per me. Ma ho continuato a provare e riprovare. Ha funzionato.

Sei cresciuto a St. Louis, quand’è che la programmazione ti ha affascinato per la prima volta?
È stato prima dei computer, perché mio padre aveva un Heathkit. Cazzeggiavo con quello, in codice morse, ed era molto interessante. Poi è arrivato il PC Junior. St. Louis aveva una comunità hacker molto attiva – intendo hacker nel miglior senso possibile, cioè qualcuno curioso verso la tecnologia, disposto a studiarla in profondità. 

Era una fascinazione intellettuale, giusto? All’epoca non avevi nessuna conoscenza pratica dell’argomento, o sbaglio? 
Non all’epoca. Volevo solo costruire. Volevo creare delle cose. Ero affascinato dai sistemi operativi.

All’epoca c’erano anche molte cose che potevano distrarti, altri interessi. Hai fatto più di 1000 ore di lezione di massaggio terapia, studiavi fashion design e illustrazione botanica…

Le cose che mi distraevano non erano la terapia o le illustrazioni botaniche, ma la natura astratta della programmazione. Mi ci perdevo di continuo, perché è tutto dentro la tua testa. Cambia il modo in cui sogni. Inizi a programmare in sogno. Anzi, puoi addirittura controllare i tuoi sogni. È davvero molto astratto, e niente sembra reale. Dopo un po’ mi tornava sempre voglia di fare qualcosa di diverso, da toccare con le mani.

Qualcosa di concreto.

Ho sempre amato il disegno, anche da bambino. Mia madre dipingeva, e io ero bravo. L’illustrazione botanica è una meravigliosa intersezione tra arte e pratica. A un certo punto, però, ho capito che non avrei mai guadagnato abbastanza per vivere, e sono tornato alla programmazione. Poi ho iniziato a soffrire di tunnel carpale. Un amico mi ha detto di farmi fare un massaggio. Mi piaceva l’idea di capirne sia la teoria che la pratica. Volevo capire il come e il perché. Ho fatto 1000 ore di lezioni perché volevo capire cosa ci fosse di utile, e per guarire io stesso. Ha funzionato.

E la moda? 

Sono sempre stato affascinato dall’architettura e dalle costruzioni. Mi sono fissato con i jeans perché sono di San Francisco, e Levi’s è dietro l’angolo. Da ragazzino non indossavo altro. E migliorano ogni giorno. Hanno tutti una certa patina – basta guardare un paio di jeans usati per capire lo stile di vita di chi li indossa. Puoi vederne la storia. Sono andato a una scuola di moda, ma non ho mai fatto pantaloni, perché abbiamo iniziato a lavorare a Twitter.

Quanto di tutte queste esperienze ti è stato utile, lavorando a Twitter? 

Una delle gioie di Twitter, in realtà, è che al contrario del resto della programmazione, scrivere codice significava far vibrare il telefono di Biz (Stone, nda). Nelle prime settimane, programmare qualcosa che facesse muovere un oggetto era la mia gioia più grande. È così che ho capito quant’è importante l’equilibrio tra il software e l’esperienza nel mondo reale. La programmazione è un campo magnifico. Mi piace dipingere, disegnare e programmare, perché sono arti dove puoi letteralmente partire dal niente e creare qualcosa.

Il primo germe dell’idea-Twitter è sicuramente tuo, ma poi la storia si fa parecchio complicata. Noah Glass, uno dei co-fondatori, ha detto che molto del suo lavoro non è stato riconosciuto. Fino a quanto ti senti di ringraziare gli altri ragazzi con cui hai sviluppato l’idea?

Una volta pensavo che cose del genere fossero importanti. Adesso no. Non credo che la nostra storia fosse la cosa più interessante di Twitter. Noi siamo riusciti a capire come il pubblico lo utilizzava, e a renderlo più accessibile di conseguenza. La piattaforma non era la vera idea geniale. Era il simbolo @. Il simbolo #. Oppure il retweet.

Che è arrivato dagli utenti. Gli utenti hanno inventato tutte queste cose.

Il nostro ruolo era osservare le persone mentre cercavano di comunicare tra loro. Penso fosse il ruolo più grandioso che abbia mai avuto. Era incasinato. Creare è incasinato. Alcune idee erano di individui isolati. Altre no. Altre ancora nascevano conversando. Io e Noah parlavamo di Twitter fino alle quattro del mattino. È stato davvero triste vederlo andare via. È la prima persona con cui ho ragionato di queste cose, ma è Biz il mio partner sul prodotto vero e proprio. Abbiamo inventato il termine “followers” e tutte le meccaniche di base, ma erano sbagliate. Poi si sono evolute.

Come è successo a Steve Jobs, sei stato cacciato dalla compagnia che avevi fondato. Poi sei tornato nel 2011 dopo aver fondato un’altra azienda gigantesca, Square. Era tutto un grandioso piano architettato per il tuo ritorno?
Non credevo che sarei tornato. Ero fuori. Ho incontrato il capo con cui lavoravo quando avevo 15 anni, Jim Mc-Kelvey. Volevo lavorare ancora con lui. Abbiamo preso in considerazione le idee più disparate, dalle macchine elettriche a quello che poi è diventato Square. Pensavo fosse una cosa dal potenziale enorme. Ero felice. Amo Twitter. Sono sempre disponibile a fare quello che serve perché raggiunga il suo potenziale. Finché sarò utile all’azienda, sarò qui. Se dovessi diventare irrilevante, e a un certo punto lo sarò, allora spero di aver costruito le alternative necessarie.

C’è stato un momento in cui hai detto di voler diventare il sindaco di New York. È ancora nella tua lista dei sogni?

Le città mi hanno sempre affascinato. Fare il sindaco mi sembrava il modo migliore per osservare e avere un impatto sulla città. A un certo punto ho realizzato che avrei potuto scrivere una legge e non vederne gli effetti per qualcosa come otto anni, mentre con una simulazione digitale potevo farlo in otto secondi. Sono sempre più convinto che costruire e creare possa influenzare più rapidamente la società del nostro attuale sistema legislativo. E poi sarei un sindaco terribile.

Quindi non pensi più a una carriera politica?

No. 



Qual è il momento in cui hai cambiato idea?

Non credo che sarei stato me stesso. A me piace essere creativo. Scherzare, cazzeggiare. Mi piace la creatività.

Credi che nel nostro paese sia ancora necessario che un politico abbia dignità?

Una volta qualcuno ha scritto un pezzo sul fatto che indossavo dei sandali di fronte alla sede di Goldman Sachs…

Quanto tempo dedichi ai tuoi obiettivi filantropici, e dove vuoi che finisca il tuo denaro quando non ci sarai più?

Beh, vorrei donarlo tutto. Uno dei problemi più grandi del nostro mondo è il cambiamento climatico. L’altro è la disparità economica. Non credo sia giusto che io abbia accesso a tutta questa ricchezza. Ho fondato un’azienda chiamata Start Small Foundation, pensata per insegnare alla gente a costruire business profittevoli in posti come Ferguson, perché il business è fondamentale per una comunità duratura. Non so se sia l’idea giusta, o se serva qualcosa di più specifico come il reddito di base, ma vorrei che la mia ricchezza contribuisse a colmare le disparità economiche. La maggior parte di questa ricchezza, il 98%, è capitale delle aziende, quindi non sono davvero miliardario. Se queste aziende non dovessero andare bene…

Dovresti imparare dal mondo hip-hop e dire “Sì, sono un miliardario”.

No. No. Non sono così cool. Potrei sparire domani. Ho restituito il 10% del mio capitale di Square all’azienda. Ho donato gran parte del mio capitale alla fondazione.

Cosa pensi di Elon Musk?
Le persone come Elon sono i veri precursori. Non conosco un’altra persona su questo pianeta che vuole portarci fuori dal pianeta perché lo stiamo danneggiando troppo. Chi è che guida l’umanità verso Marte? Queste sono le cose di cui si parlava un tempo, e di cui non si parla più.

I più critici lo dipingono come un buffone.

Lui è un buffone. Devi esserlo. Devi esserlo per pensare così in grande. Lo adoro. Amo quello che cerca di fare e voglio aiutarlo in ogni modo possibile. Ho un amico, un produttore musicale. Gli ho chiesto: “Come mai fai musica?”. Ha risposto: “Non sono mai stato capace a suonare. Non so nemmeno se ho buon gusto. Ma amo i musicisti, e vorrei solo aiutarli”. Credo che Elon sia più o meno così. Capisco quello che vuole fare, e voglio aiutarlo. Questo è il lavoro di tutti gli artigiani. Costruiamo strumenti.

Se pensi al tuo primo mandato come CEO di Twitter, ti saresti cacciato?

Non mi sarei cacciato. Avrei dato il mio contributo.

Stai dicendo che con l’aiuto giusto avresti avuto successo?

Sì. Devi tenere a mente che eravamo un’azienda di 13 persone. Io non ero mai stato il capo di qualcuno. Era tutto nuovo. Ho dovuto licenziare persone da cui dipendevamo completamente, eravamo sempre sotto uno sguardo attentissimo. Abbiamo lavorato su scala globale dal primo giorno. Ha subito avuto risonanza. La gente ci tirava addosso i soldi. Poi c’era Facebook, che si limitava a copiare quello che facevamo. C’era un sacco di stress, lavoravo senza sosta. La piattaforma andava offline di continuo. Pagavamo mezzo milione di dollari solo per le fatture delle schede SIM. Era assurdo. Il nostro ufficio sembrava una tomba. Era scuro, non c’erano finestre. Se metti qualcuno in una posizione come quella puoi solo aiutarlo o rimpiazzarlo, e io sono stato rimpiazzato.

Credi sia corretto dire che quando ti hanno cacciato eri determinato a far sapere al mondo chi fossi e quanto fosse importante quello che facevi?

Sì. Pensavo di essere stato cancellato da tutto, cancellato intenzionalmente. Non è stato bello. Io ero parte di quella storia. Per due anni sono stato il co-fondatore, poi all’improvviso non lo ero più. Di solito non parlo molto di me stesso, non combatto per le mie cose. Quella è l’unica volta in cui l’ho fatto. Non so se ha funzionato. Non importava a nessuno.

Sei seduto qui adesso. Chiaramente qualcosa ha funzionato.
No, no. Sono andato via e ho fatto una cosa mia. Ho imparato che avevo bisogno di imparare. Ho fondato un’azienda. È solida e stabile. Credo di aver provato a me stesso che quando mi metto qualcosa in testa e ho gli strumenti giusti, allora riesco a farla.

Se pensi al tempo che hai passato con lui, saresti in grado di spiegarmi le differenze filosofiche tra te e uno come Zuckerberg? Twitter e Facebook guardano al mondo da prospettive diverse. 

Mi piacerebbe. Ma non so quale sia la sua filosofia. Non capisco quale sia il loro obiettivo.

L’obiettivo di Facebook?

Mm-hmm. So quello che dicono, ma non sono sicuro. Vedo Mark come un businessman davvero, davvero intelligente. Lui eccelle nel conquistare tutte le quote di mercato possibili.

Qual è stato il vostro incontro più memorabile?

Beh, c’è stato un periodo in cui mangiava solo quello che riusciva a uccidere con le sue mani. Mi ha invitato a cena e ha cucinato una capra. L’aveva uccisa.

Davanti a te?

No, l’aveva uccisa prima. Suppongo le uccidesse lui. Le uccideva con una pistola laser e il coltello. Poi la mandavano al macellaio.

Una… pistola laser?

Non lo so, un’arma stordente. Li immobilizzava e poi li finiva con il coltello. Pare che a Palo Alto ci sia un regolamento per cui si possono avere sei capi di bestiame su un lotto di terreno, e quindi lui all’epoca aveva sei capre. Gli chiesi: “Mangeremo la capra che hai ucciso?”. Ha risposto: “Sì”. Ho detto: “Ma hai mai mangiato carne di capra prima d’ora?”. Lui: “Sì, la adoro”. Allora ho detto: “Che altro c’è da mangiare?” “Insalata”. Ho chiesto: “Dov’è la capra?”. “Nel forno”. Abbiamo aspettato 30 minuti, poi siamo andati in sala da pranzo. Ha tirato fuori la capra, era congelata. È stato memorabile. Non so se poi è tornata in forno. Io ho mangiato l’insalata.

È difficile trovare una metafora che possa dare un senso a questa storia.

Non so cosa farai con quello che ho detto, ma spero che non diventi il titolo dell’intervista. La vendetta è un piatto che va servito caldo. O freddo.

Quando sei passato da Twitter a Square ti sentivi come se volessi conquistare il mondo? 

No, io non voglio conquistare il mondo.

Come fai a bilanciare la tua ammirazione per un personaggio come Steve Jobs con quello che sappiamo adesso del suo lato oscuro, sia sul lavoro che nella vita privata? 

Non so come fosse lavorare con lui. Ma non era solo un uomo della tecnologia. Era un artista. Mio padre si occupava di tecnologia. Mia madre era un’artista. Non è facile trovare lo stesso equilibrio altrove. Steve Jobs era l’unica persona a fare cose interessanti. Era anche una grande icona. Aveva un’idea precisa di chi voleva essere. Era sicuro, curioso, un personaggio davvero affascinante. Mi ricordo quando ho visto la pubblicità del Super Bowl. Era diverso da tutto quello che avevo visto fino a quel momento, aveva una personalità “antisistema”, creatività. Mi ha ispirato enormemente, e ho iniziato a informarmi su di lui e sulla sua azienda. Sfortunatamente, è stato licenziato due anni dopo.

Come hai scoperto il punk?

In un club di St. Louis, e in un sacco di cantine. La mia band preferita dell’epoca erano i Flipper. Da lì sono arrivato agli Operation Ivy. Gli Operation Ivy mi hanno portato a un sacco di ragazzi della Bay Area (le band ska-punk, nda). I Common Rider ai Coup e poi al rap. Una delle cose che apprezzo di più del punk è l’attivismo. Quando sono arrivato lì, nel ’99, sono immediatamente andato in un locale, il Gilman. Ho lavorato come buttafuori, il che è divertente, perché guarda come son fatto. A quanto pare, però, la maggior parte della gente che va al Gilman è piuttosto innocua. Non c’è alcool. Lo adoravo. Era una cosa collaborativa, un collettivo. Ballavo sotto il palco mentre suonavano tutte queste band punk. Guardavo a destra e anche Billie Joe Armstrong era lì che ballava con me. È piccolo e salta come un matto. Pensavo: “Wow, che figata”. È così che mi sono appassionato.

Jack Dorsey all’epoca dell’attivismo punk. Foto via Instagram

Prima hai detto: “Sono un punk”. Come si fa a essere punk facendo un lavoro come il tuo? Credi davvero che sia possibile? 

Sì, penso di sì. Lo spero. Penso che abbiamo bisogno di conoscere sguardi diversi sul mondo. Ci sono molte persone con un background simile al mio che possono sembrare strambe, o fuori posto. Magari guardano alla mia storia e pensano: “Beh, se può farlo lui, posso farlo anche io”.

Che cos’è che ti ha colpito di più del punk?

Il fatto che fossero tutte band di tre persone, sempre musicisti orrendi. Il pubblico li derideva, gli tiravano addosso di tutto, ma non smettevano di suonare. Tornavano sul palco due settimane dopo, ed erano un pochino meglio. Quattro settimane dopo erano grandiosi. Mi affascinava l’idea di poter guardare qualcuno migliorare in pubblico, davanti a tutti. Per me, il mondo ha bisogno di questo. Per me, questo è uno dei più grandi benefici offerti da Twitter. Elon lo fa meglio di tutti. Lavora in pubblico, pensa in pubblico. Ha idee in pubblico. Io ho preso questo approccio dal punk. Anche l’hip hop è così, in parte. Kanye, con Life of Pablo, ha fatto la stessa cosa nell’era dello streaming.

Come definisci la tua spiritualità?

Non credo in nessuna religione particolare. Per me è spirituale tutto ciò che porta all’autocoscienza è spirituale. Riesco a sentire una certa spiritualità solo quando mi sento connesso a una coscienza globale. Quando cammino per le strade di New York mi sento così, tutto sembra elettrico e mi sento parte del mondo anche se non parlo con nessuno. Credo che Twitter sia la cosa più vicina che abbiamo a una coscienza globale. Almeno è così che vorrei poterlo usare.

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