Ivrea, una settimana dopo il Far West | Rolling Stone Italia
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Ivrea, una settimana dopo il Far West

Cosa succede quando l'odio assume il volto del tuo vicino di casa? Il racconto in prima persona a sette giorni dalla sparatoria in cui un tabaccaio ha ucciso un rapinatore, tra chi esulta per la morte di un immigrato e chi si augura un futuro da fondamentalismo islamico

Ivrea, una settimana dopo il Far West

Una foto dal raduno annuale della NRA in Texas

Foto Justin Sullivan/Getty Images

Sono tornato nella mia città, Ivrea, ventimila anime bagnate dalla Dora Baltea, una settimana dopo il tragico accadimento. Non sembrava passato nemmeno un giorno. Tra i bar e i ristoranti, come in famiglia e tra amici, l’argomento era ancora lo stesso del titolo del giornale della settimana precedente: tabaccaio uccide ladro. Perché, nonostante il tempo scorra, un avvenimento da cronaca nera nella propria piccola cittadina di provincia è un generatore infinito di commenti e pareri e prese di posizione. Ivrea, fresca di nomina a patrimonio Unesco grazie al suo glorioso passato olivettiano, sembra aver dimenticato quei giorni dorati. Dalla rapina ideologica di Salvini, che a Pontida fa riferimenti ad Adriano Olivetti (uno che la pensava un filo differente da Matteo, come possiamo leggere, “Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere”), a questa rapina che ha smosso la comunità eporediese, non è un periodo florido per la storia di questa città.

Avrete tutti sentito del tabaccaio che, in quello che pare un impeto di legittima difesa, ha ucciso uno dei rapinatori che avevano appena svaligiato il suo negozio. E sebbene la dinamica degli eventi non sia stata ancora chiarita, tanto da non aver ancora dimostrato se ci sia stata o meno una colluttazione o se il negoziante abbia sparato a distanza dal balcone della propria casa, la vicenda ha spaccato l’opinione pubblica in due fazioni, con una maggioranza agguerrita che pone il tabaccaio come unica vera vittima e una minoranza che cerca invano di riportare la questione al valore universale della vita. Una guerra ideologica che ha disvelato il bisogno di una parte della collettività di festeggiare il decesso del ragazzo moldavo, come se la giustizia trovasse suo compimento nell’uccisione, ancor meglio se di un immigrato.

Come se una parte della popolazione avesse bisogno dell’immigrato cattivo e criminale per giustificare l’innaturale odio che ha oramai invaso la nostra quotidianità. Il problema nuovo è che, per la prima volta, di molte di questi commenti inumani conosco volti, lavori, famiglie e – per quanto io possa forzarmi di credere che si siano lasciati andare all’impulsività – ad una settimana dalla tragedia inizio a dubitare del loro ‘umanesimo’, per utilizzare un altro concetto caro alla cultura storica olivettiana. Siamo abituati a leggere commenti iperbolici e disumani sui social, il vero terrore è però quando questi commenti sono scritti da persone che fanno parte della rete sociale in cui sei cresciuto e hai vissuto. È come se, ora, quella battaglia si sia spostata da un luogo immaginifico (l’internet) fino alla porta di casa tua.

Commenti tipo “quando mi entrano in casa io faccio una strage”, “ha solamente eliminato un criminale”, “peccato che ne ha ucciso solo uno”, “sotterratelo e ‘fanculo”, “se carabinieri e polizia sono educati a sparare ai delinquenti, perché non può farlo una persona che ha un regolare porto d’armi?”, oppure “era ora”. E a chi si permette di ricordare che è morto un ragazzo, la risposta è lapidaria, “buonisti del cazzo con il culo degli altri” oppure un ancor più chiaro “ragazzo? Definizione un po’ sopra le righe x un lurido delinquente”. Chiunque provi a ricondurre la conversazione alla legge italiana, alla giustizia o al valore sacrosanto della vita, viene tacciato come comunista-buonista-del-cazzo, o pidiota.

Ma non si può essere felici se muore un ragazzo, anche se quel ragazzo ha tentato una rapina perché quando si festeggia una morte, si sta sempre aprendo la strada ad una guerra. Gran parte di quei messaggi d’odio li ho trovati online (e in particolare sui social del giornale locale, La Sentinella) o sentiti nei dehor dei bar in centro: sono figli di un allarmismo e di un sentimento di paura che, da un paio di anni, viene propagandato da certi schieramenti politici senza una reale connessione alla realtà; le statistiche della polizia hanno evidenziato che la criminalità in Italia è in calo, a dimostrazione di come i numeri reali abbiano perso la loro validità in un mondo social di fake news.

Ivrea si è fatta ingolosire dal populismo del tutto e subito dove, ancor prima dei risultati della scientifica, ci si è già schierati come fossimo ad un derby calcistico, per puro partito preso, senza possibilità di dialogo. E mentre eravamo in attesa di comunicazioni ufficiali da parte degli organi di stato, duemila persone hanno manifestato in solidarietà del tabaccaio eporediese con cartelloni e striscioni con scritto “Siamo tutti Franco”. Intervistato durante la fiaccolata, Mauro Fava, consigliere regionale della Lega in Piemonte, si è lasciato andare a questa dichiarazione, “una legge più severa verso chi va a delinquere, come in certi Paesi che se vai a rubare anche solo il minimo ti tagliano una mano”.

La cartolina di questo Paese, e di questo preciso momento storico, è Ivrea, una cittadina piemontese in cui, per paradosso, un leghista auspica un futuro da fondamentalismo islamico, prendendo l’amputazione come esempio di riferimento. Noi non siamo e non dobbiamo essere Franco. Franco non è un esempio. Franco si è trovato in una situazione di merda e ha optato – con cognizione o meno, ancora non ci è dato sapere – per la soluzione peggiore. Prendere un’arma, sparare, uccidere. Rovinare per sempre la propria vita. E cancellarne una dal mondo. Probabilmente nemmeno Franco vorrebbe essere Franco ora, tantomeno dovremmo volerlo essere noi. Come scriveva Albert Camus, chi avrebbe creduto che il delitto non consiste tanto nel far morire altri quanto nel non morire noi stessi!

Queste tragedie, piuttosto che farci riflettere sulle motivazioni drammatiche che portano uomini a rubare e sparare, diventano un focolaio incontrollato e irrazionale di rabbia e odio, inasprendo una spaccatura sociale e umana terribile. In questi continui e quotidiani commenti, l’aria è quella di una nazione che sta sfaldandosi dall’interno. Ci sbraniamo senza rispettare l’opinione altrui (e posso già giurare che accadrà nei commenti di questo articolo), soprattutto se questa prova ad essere razionale, educata, civile, piuttosto che aprirci in un dialogo sensato. Duemila persone si sono schierate con il tabaccaio Franco, e contro il ragazzo moldavo, senza nemmeno sapere come siano andati gli avvenimenti. Ascoltate le parole delle persone intervistate alla fiaccolata (o fatevi una gita fuori porta a Ivrea, nonostante tutto ve la consiglio) per intendere che – per loro – i fatti non sono importanti: il ladro non meritava di vivere e il tabaccaio ha agito nel modo migliore.

La legge però non è un parere popolare che ben dista dall’applicazione della legislatura e dal rispetto delle regole. Non crediamo più nella giustizia e nel carcere, ma nel giustiziare; un ruolo associato agli stati dittatoriali. Per la legge italiana una rapina ha una pena che – chiaramente – non constata nell’uccisione del rapinatore. C’è una legge e la società civile deve attenersi a questa, prima di trascinarsi con le proprie mani nel Far West. Noi non siamo sopra la legge, noi dobbiamo rispettare la legge.

Non dobbiamo cadere nella trappola di diventare giustizieri come fossimo entità immacolate e prive di ogni peccato. L’esempio armato americano è forse la peggiore ispirazione a cui far riferimento, confermata da ricerche e dati che attestano il suo storico fallimento sul tema (“l’unica variabile che spiega l’alto tasso di sparatorie di massa negli Stati Uniti è la presenza di un numero astronomico di armi”, scrive il Times riferendosi agli studi del Department of Criminal Justice dell’Università dell’Alabama). Tanto quanto l’auspicarsi un futuro fondamentalista. Il bene più prezioso non è la proprietà privata, ma la vita umana. E abbiamo il dovere di ritornare a ricordarci l’importanza delle parole vita e morte.

Questo continuo vociare collettivo è disturbante per l’equilibrio della nostra società. Il decidere, come fossimo creature divine, che una vita ha meno valore di un’altra. Eppure, mentre ci ergiamo a esseri divini, mentre andiamo nelle piazze a baciare il rosario, noi dimentichiamo – volutamente ignoranti – le parole stesse della divinità a cui diciamo di fare riferimento. Non uccidere, ancor ora, rimane un comandamento biblico. E non penso debba ricordarvelo io che sono ateo. Un artista eporediese pochi giorni fa ha sintetizzato questa atmosfera postando sui suoi social un fotomontaggio di una cittadina del Far West con un cartello con scritto Ivrea. Più chiaro di così.

Ritornato a Milano, ho pensato che mi mancano le storie dei miei nonni di quando Ivrea era una comunità vera, un popolo per i popoli, una perla nella costellazione capitalista occidentale. E sarebbe magnifico se diventare patrimonio Unesco non fosse solo un modo per arricchirci col turismo, ma una via per tornare ad arricchirci umanamente. Ora come ora, non ci meritiamo la storia di questa città.