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Insultare Mattarella su Facebook può costarvi caro

State attenti, ragazzi: a fare i bulletti su Facebook, a scrivere insulti e deridere gli altri, si rischiano soldi, lavoro, perfino la prigione. E non vale solo con il Presidente della Repubblica.

AGENZIA SINTESI / Alamy / IPA

Lo abbiamo visto tante volte ma, di recente, è successo niente poco di meno che col Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Insulti di tutti i tipi e di tutte le salse per alcune scelte politiche, prima che si insediasse, al secondo tentativo, il Governo di Conte. Ora, vorrei innanzitutto che si evitasse di paventare il solito analfabetismo funzionale, mettendola sul piano politico, che non è oggetto del discorso. Il punto è che sui social, in particolare Facebook, Mattarella se ne è prese di ogni. Insulti di vario grado, minacce di morte, auguri di malattia e così via. Qui non si parla di avere opinioni diverse e criticare quelle degli altri, ma di ritrovarsi al bar, incontrare un amico che ti dice che la sua squadra di calcio è più forte della tua e tu gli auguri di morire in preda alla sofferenza. Lo faresti davvero? E se lui ti dicesse che il ministro X, piuttosto che Y, è un incapace, davvero tu, in quel bar, guardandolo negli occhi, gli diresti che è un “vecchio rincoglionito”?

I social sono una piazza, non una pizza
Fino a quando i social coinvolgevano una nicchia di utenti c’era la diffusa credenza che fossero una zona franca in cui dire tutto ciò che si voleva. Col passare del tempo e la loro diffusione, tuttavia, ci si è resi conto che i social rappresentano (purtroppo, visto quel che vi si legge) a tutti gli effetti la nostra società. E da qui è partito un controllo più serrato dei contenuti pubblicati non solo dal team di Zuckerberg, ma anche da parte delle Autorità. Non si tratta di censura: il problema è che si confonde la libertà d’opinione con turpiloquio, diffamazione e minaccia. Anche nella vita reale, quella che ti porta ad alzarti dal letto e andare a lavoro, a sederti al tavolo di una pizzeria, o prenderti la tintarella sulla sabbia, esiste questa differenza. E tutti, o quasi tutti, la rispettiamo. I social sono solo una traslazione digitale di questo principio, che è un principio di buon senso, ma che ridendo e scherzo è e rimane regolato anche dal nostro ordinamento giuridico. Vi faccio un esempio lampante: Articolo 595 del Codice Penale.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

Capite che i social sono a tutti gli effetti quel “atto pubblico”, citato poche righe quassù, che può portare anche alla reclusione. Ora, so che tutto questo vi sembrerà ridicolo, perché tutto sommato quasi tutti ci siamo imbattuti in offese nei social, ma il fatto che non abbiamo mai assistito a delle conseguenze legali non significa che non esista modo per ricorrervi. Con un Presidente della Repubblica va anche peggio. In questo caso, infatti, si ricorrere all’Articolo 278 del Codice Penale, che punisce il reato di “Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica” e prevede la reclusione da uno a cinque anni.

Le cose si fanno serie
Ha fatto scalpore la decisione, da parte della Polizia Postale, di avviare un’attività di monitoraggio dei social per individuare le minacce nei confronti del Presidente Mattarella. E con minacce parliamo di cose tipo “Muori bruciato vivo” o “Mafioso di merda, da fucilare subito”. Gli analfabeti funzionali hanno subito latrato si trattasse di una forma di censura della libera opinione, di coercizione ad accettare determinate mosse politiche, ma il discorso è ben diverso. Ho l’impressione che, trovandosi di fronte a Mattarella, il leone da tastiera di turno non gli direbbe “Muori bruciato vivo”, perché oltre a essere degno di un minus habens sarebbe consapevole delle conseguenze legali del gesto. Bene, ragazzi, i social ci pongono di fronte alle stesse meccaniche, è tempo e ora che ce lo ficchiamo in testa.

E non vale “solo” col Presidente della Repubblica. Qualche giorno fa è saltata fuori la notizia di una 43enne di Forlì che, a causa di un suo post diffamatorio, dove diceva “Mi sono rotta di questo posto di m…” si è ritrovata licenziata, con tanto di conferma da parte della Cassazione. Il fatto risale al 2012, quando una mattina, la donna, invalida al 67%, ha scritto un post su Facebook lamentandosi dei continui cambiamenti di mansione a cui veniva sottoposta. Il titolare dell’azienda lesse il messaggio e propese per il licenziamento per giusta causa, confermato poi in tutti i gradi di giudizio.

Una scomoda platea
Il nocciolo della questione sta nel fatto che, quando siamo in un social, ci dimentichiamo che la platea potenziale dei nostri messaggi è enorme. Di sicuro, non è limitata all’amico col quale ci rivolgiamo davanti a un caffè, e probabilmente nemmeno ai soli destinatari a cui rivolgiamo un post, pur con tutte le attenzioni del caso quando impostiamo i parametri della privacy.

Basta avere un contatto “fake” tra gli amici Facebook, creato da chi ci vuole controllare, o qualcuno che faccia uno screenshot (una “foto”) di un post, per metterlo a disposizione di un pubblico enorme ed eterogeneo. Come se quel caffè venisse preso in un bar, ma circondati da microfono e telecamere pronti a mandare in mondovisione la nostra conversazione. Del resto, per lo meno io, quando incontriamo un amico in un luogo pubblico teniamo la voce bassa. Impariamo a farlo anche sui social.

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