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In Italia l’aborto è ancora un diritto negato

La legge 194 è entrata in vigore più di 40 anni fa, ma per tante donne l’Interruzione volontaria di gravidanza è ancora una chimera. Vengono in mente le parole di Emma Bonino: siamo ancora quel Paese in cui «Partorirai con dolore e abortirai con tortura»

In Italia l’aborto è ancora un diritto negato

Foto di Long Visual Press via Getty

A gennaio il consigliere regionale Marco Grimaldi ha presentato un’interrogazione che propone di affrontare un nodo delicatissimo per il Piemonte (e più in generale per l’Italia), ossia quello dei medici obiettori e delle difficoltà che sempre più donne incontrano quando decidono di abortire.

La situazione è bene esemplificata dall’ospedale di Ciriè, un comune a pochi chilometri da Torino, dove nove ginecologi su nove sono obiettori di coscienza e, di conseguenza, il diritto all’aborto viene sistematicamente negato.

Una condizione di estrema precarietà che, secondo Grimaldi, «mostra quali siano gli effetti non solo di una tendenza purtroppo in aumento fra i medici, ma dell’attuale indirizzo della Regione, che da quando è in carica non solo si è dimenticata di far applicare la legge 194, ma ha fatto di tutto per ostacolare l’autodeterminazione e la libertà delle donne, fino all’ingresso delle associazioni Pro Vita nei consultori».

Anche quest’ultimo aspetto meriterebbe la massima attenzione, dato che i metodi ideologici impartiti nei “corsi di formazione” attivati da queste organizzazioni sono ormai ben noti: un’indagine di Quotidiano Sanità ha scoperchiato il vaso di Pandora, dimostrando come i volontari vengano inviati nei consultori per diffondere un clima da caccia alle streghe e stigmatizzare chi intendesse abortire, rallentando l’accesso delle donne non soltanto all’interruzione volontaria di gravidanza, ma anche alla contraccezione di emergenza. Le tecniche adottate sono tantissime, in primis delle frasi coniate appositamente per colpire sul vivo le donne («Capisco che lei sia vittima di violenza, ma se ora abortisce farà lei stessa una violenza»); ma viene riservato ampio spazio anche alla diffusione di menzogne antiscientifiche in piena regola («Una gravidanza può guarire la leucemia», «Un aborto renderà il suo partner omosessuale», «Non può accedere all’aborto senza il consenso del partner»).

Quello di Ciriè non è un caso isolato: secondo la ricerca Mai dati!, pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, in Italia, gli ospedali in cui risulta impossibile effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza sono almeno 15, mentre 46 strutture hanno una percentuale di obiettori che supera la soglia dell’80%.

Per fotografare lo stato dell’arte di un diritto mai effettivamente goduto, la docente Chiara Lalli e la giornalista Sonia Montegiove – le due esperte che hanno condotto l’indagine – hanno creato la “Mappa obiezione 100”, che raccoglie e aggiorna le strutture in cui la totalità del personale è obiettore di coscienza e quelle con una percentuale superiore all’80% per tutte le categorie professionali (ginecologi, anestesisti, personale non medico).

Il quadro che ne risulta è deprimente: in 11 le regioni c’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori. A distinguersi per inadempienza sono la Sardegna e la Sicilia, con più dell’80% di mancata risposta all’accesso civico generalizzato; ma i casi estremi non mancano neppure a livello provinciale, come nel caso di Andria, dove sono obiettori al 100% sia i ginecologi che il personale non medico.

In Italia, l’interruzione volontaria della gravidanza è divenuta legale il 22 maggio del 1978 grazie a un traguardo di civiltà come la legge 194, poi confermata dal referendum abrogativo del 17 maggio 1981. Tuttavia, dopo più di quarant’anni, la sua piena attuazione è ancora fortemente messa in discussione non soltanto dai medici che si ritengono moralmente contrari a questa pratica, ma anche da una radicata e parecchio attiva “lobby pro-vita”, che non perde occasione per rivendicare la propria presenza all’interno dei consultori e influenzare l’operato delle istituzioni.

Ne abbiamo avuto una dimostrazione in Umbria, dove negli ultimi due anni la giunta di centro-destra, guidata da Donatella Tessei, ha portato avanti una vera e propria crociata contro la RU486 – la cosiddetta “pillola abortiva”, il metodo più utilizzato per interrompere volontariamente una gravidanza entro le prime 7 settimane dal concepimento.

Con una delibera della giunta regionale, nel giugno del 2020 l’Umbria era giunta ad abrogare la possibilità di accedere all’aborto farmacologico in Day Hospital o al proprio domicilio, imponendo un ricovero di tre giorni – ma ha dovuto tornare sui propri passi a dicembre, per adeguarsi alle linee guida del Consiglio superiore di sanità. Una situazione ben nota anche nel caso del Piemonte, che poco più di due mesi fa è stato diffidato da 27 associazioni e dai ginecologi abortisti per “la mancata applicazione delle linee guida ministeriali per l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico”, vietando la RU486 all’interno dei consultori.

Anche la cronaca di tutti i giorni dimostra che l’Italia non è ancora sufficientemente matura per garantire un pieno diritto a disporre liberamente del proprio corpo. Nel 2020, grazie a un’approfondita inchiesta condotta dalla giornalista Jennifer Guerra, l’opinione pubblica internazionale ha potuto finalmente venire a conoscenza del grado di conservatorismo italiano nei confronti del diritto all’aborto.

In quell’occasione, Guerra portò alla luce il triste fenomeno dei “cimiteri dei feti”, mappandone più di 50, tra cui il tristemente famoso “Lotto 108” del cimitero Flaminio di Roma: una distesa infinita di croci dove vengono seppelliti – senza alcun consenso – i feti abortiti delle donne.

Per le donne intenzionate ad abortire, però, l’atmosfera horror non è riservata soltanto a casi estremi come quello delle catacombe degli embrioni; il calvario inizia sin da subito, con la difficoltà di sapere come, quando e dove. L’apparato che dovrebbe rendere effettivo il godimento di un diritto fa acqua da tutte le parti: i siti del ministero della Salute e dell’assessorato regionale alla Sanità non fanno cenno alle modalità di accesso, i consultori spesso ignorano il telefono e gli ospedali tendono a rimandare di settimana in settimana l’appuntamento, anche solo telefonico, chiesto da chi ha bisogno di informazioni.

L’amara verità è che, dopo più di quarant’anni, in Italia il diritto all’aborto continua a essere negato alla maggior parte delle donne. Vengono in mente le parole che Emma Bonino utilizzò qualche anno fa: forse, siamo ancora quel Paese in cui «Partorirai con dolore e abortirai con tortura».

Se è vero che il grado di modernità di un Paese si misura – anche – dalla possibilità di disporre liberamente dei nostri corpi, beh,  la strada da fare è ancora lunga e piena di ostacoli.