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In Corea del Sud, per la comunità LGBT il coronavirus vuol dire discriminazione

Da quanto alcuni casi sono stati collegati a un infetto asintomatico che aveva frequentato alcuni locali gay, stampa e opinione pubblica hanno cominciato una campagna di discriminazione

Chung Sung-Jun/Getty Images

Lo schema del capro espiatorio è sempre lo stesso: nei momenti di crisi si prendono a bersaglio le minoranze, su cui riversare ingiustamente la responsabilità dei problemi. Ai tempi del coronavirus, in Corea del Sud si è scatenata una reazione omofobica, ultimo tassello di una lunga storia di stigmatizzazione nel Paese. E il timore è anche che le persone LGBT, di conseguenza, non si sottopongano ai test per paura di risultare positive al virus ed essere perseguitate.

La Corea del Sud è stata elogiata per essere riuscita a contenere bene la pandemia: è passata da essere la seconda regione con più contagi, dopo la Cina, a registrare solo una manciata di casi. Ma, dal momento che diverse nuove infezioni sono state collegate alle discoteche del distretto gay di Seoul, Itaewon, si sono inaspriti gli atteggiamenti omofobici. Dopo che Kookmin Ilbo, un giornale locale collegato a una chiesa evangelica, ha riferito che un uomo di 29 anni, infetto ma senza sintomi, aveva frequentato diversi locali gay, anche molti altri media sudcoreani ne hanno seguito l’esempio, rivelando l’identità dei contagiati e in alcuni casi anche le loro età e il luogo di lavoro. E facendo leva soprattutto sull’orientamento sessuale.

Non basta: quando si è scoperto che un altro infetto aveva frequentato una sauna LGBT a Gangnam, i giornali hanno continuato a pubblicare contenuti omofobici che attribuiscono la colpa per il risveglio del coronavirus all’uomo e ai club per omosessuali, facendo leva sul vecchio stereotipo della promiscuità dei gay, come ha confermato l’Associated Press. Secondo la CNN, da allora, diverse persone omosessuali sudcoreane hanno ricevuto gravi minacce anche sull’app di appuntamenti Grindr.

I resoconti volgari e la pubblicazione dei dati sensibili hanno preoccupato i membri della comunità omosessuale: qualcuno, temendo di perdere il lavoro e di subire un’umiliazione pubblica, ha anche pensato di suicidarsi. Tanto più che la Corea del Sud non ha leggi specifiche contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, e sarebbe difficile per i membri della comunità LGBT ottenere protezione legale in caso di licenziamento o discriminazione.

Il primo ministro Chung Sye-kyun ha esortato i cittadini ad “astenersi dal criticare una determinata comunità, perché non aiuterà a contenere la diffusione del coronavirus”. Il governo si è messo subito al lavoro per rintracciare tutte le circa 6.000 persone che hanno visitato i club di Itaewon, utilizzando i registri delle carte di credito, i video delle telecamere di sicurezza e tutti gli altri mezzi che aveva a disposizione. I funzionari hanno incoraggiato chiunque fosse nel distretto a sottoporsi al test, ma è difficile credere che a questo punto i frequentatori dei club vogliano farsi avanti.

In Corea del Sud il matrimonio omosessuale è ancora vietato. Non c’è ancora mai stato un importante funzionario pubblico o un dirigente d’azienda dichiaratamente omosessuale e molti gay non rivelano il proprio orientamento sessuale nemmeno in famiglia. Ma il Paese asiatico non è l’unico ad avere esacerbato un’omofobia legata alla pandemia: anche il più alto chierico musulmano della Turchia, ad esempio, ha dichiarato che il Paese condanna l’omosessualità perché “porta malattia”. Ed è stato appoggiato dal presidente.

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