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In Cina non c’è spazio per l’amore lesbo: stop alla traduzione di una scrittrice italiana

No alla storia d’amore fra due donne: 'Fame blu', il nuovo romanzo di Viola Di Grado, non ha trovato spazio in Cina. L'abbiamo intervistata

Credits: Viola Di Grado

È una delle scrittrici italiane più conosciute al mondo, ma questa volta una delle sue “patrie” più amate l’ha tradita. Il nuovo romanzo di Viola Di Grado, infatti, non sarà tradotto in cinese perché la storia d’amore fra due donne non viene ancora accettata nella Repubblica popolare guidata da Xi Jinping. Fame blu, edito da La Nave di Teseo, è stato così censurato nonostante in Italia stia andando benissimo, fra recensioni entusiastiche e presentazioni pubbliche gremite, e siano già previste le versioni in lingua inglese, spagnola (e catalana), tedesca e portoghese. Ce lo ha confessato lei stessa e nel farlo è emerso un altro aspetto forse ancora più inquietante per la Cina, ma non solo. Riguarda l’ambientazione delle vicende narrate che è interamente ispirata a una Shanghai tentacolare e aliena che contiene ogni altra città e ogni altra storia, in cui le culture e i simboli dell’Asia si mescolano all’Europa, la ricerca dell’amore diventa un percorso vertiginoso in se stessi che annienta ogni tabù, ricordandoci i nostri sogni più bizzarri e potenti.

La stessa Shanghai dove nell’ultimo mese la situazione è sempre più difficile a causa di una nuova ondata di Covid e le autorità, per mantenere le persone in lockdown, sono arrivate persino a installare recinzioni all’esterno degli edifici in modo da ridurre i loro movimenti. Una condizione distopica da romanzo. In questo caso, appunto, quella raccontata dalla scrittrice di origini catanesi che sembra anticipare lo smarrimento che si respira nel secondo centro urbano più popoloso della Cina, «tra fabbriche tessili abbandonate e mattatoi degli anni ’30» dove le protagoniste «scoprono una dimensione estrema in cui mordersi, appropriarsi dell’altra» che in fondo è parte essenziale del rito amoroso». E chissà quante e quanti cinesi, fra i 29 milioni di abitanti tornati in lockdown in città, vivono effettivamente come le due ragazze innamorate nel libro, ma sono costretti a nascondersi senza, stavolta, neppure il conforto di una lettura nella quale riconoscersi. Come quando Viola Di Grado scrive in modo potentissimo: «Non avevo mai fatto sesso con una donna e non ero sicura che potesse essere utile alla mia felicità, ma speravo tanto di sì. Mi intrigava l’idea di un amore sterile, da cui nessun livello di passione poteva tirar fuori nuova vita. Era un’idea poetica. Corpi che si uniscono per puro amore, senza l’insidia inconscia della procreazione, sono corpi poetici». La stessa autrice ci ha raccontato il dolore per una terra che da sempre studia, frequenta, ama, e che spera possa presto fare «passi avanti nel riconoscimento dei diritti Lgb».

In Fame blu la storia si svolge a Shanghai, città che oggi preoccupa il mondo per il ritorno del Covid, e sembra quasi anticipare lo smarrimento che si respira in questi giorni. O forse qualcosa che stava già per accadere e non abbiamo saputo cogliere?
La letteratura è spesso profetica. Basti pensare a Philip K. Dick, che ha previsto le attuali nevrosi della società occidentale come il nostro rapporto problematico con la tecnologia e con la nostra umanità. Aggiungiamoci che il mio romanzo è, appunto, ambientato in Cina, e la scrittura cinese, al contrario di quella occidentale, nata per scopi commerciali, è nata per scopi divinatori dalla necessità di trascrivere i responsi divini su dei carapaci di tartaruga. Quando scrivo tento di fare lo stesso: mettermi in comunicazione con l’invisibile, che è spesso il non ancora accaduto. Non è sempre possibile ma per me è l’unico modo in cui valga la pena scrivere. Richiede molta disciplina e molta solitudine. Il tempo, dicevano i cinesi, è un fiore di cui non vediamo le radici: il mio compito di scrittrice è scavare per esaminarle, per guardare il futuro.

Tra l’altro mi sembra che non sia la prima volta per un tuo romanzo.
È così, il giorno dopo che ho consegnato Fuoco al cielo, che parla dei disastri nucleari a Mayak, Russia, una nube di rutenio proveniente da quell’esatto luogo è giunta in Europa.

Tornando a Fame blu, hai descritto una Shanghai in cui le culture e i simboli dell’Asia si mescolano all’Europa. Tu che ci hai vissuto, cosa rappresenta per la Cina e che proiezione ha verso il resto del mondo questa città?
Shanghai si aprì al mondo a metà Ottocento, ospitando le “concessioni occidentali”, dove tuttora tendono a risiedere gli stranieri, inclusa me quando vivevo lì e la protagonista del mio romanzo. E diventò in breve la più grande metropoli dell’estremo oriente. Il mix di prosperità e decadenza, di glitter e di periferie divoranti, di grattacieli e mattatoi dismessi, sarebbe rimasta la sua caratteristica principale. Negli anni ‘20 e ‘30, in questa ricchezza esplosiva, sia economica che culturale, fiorì il cinema e la letteratura d’avanguardia. Shanghai è da sempre il luogo palpitante che si apre all’Occidente pur conservando la sua peculiarità cinese. È un cuore aperto, in cui entra di tutto costantemente e che batte al ritmo di un’allucinazione. Questa splendida città schizoide procede come un sogno: Oriente e Occidente si susseguono nel paesaggio urbano senza causalità. E infatti, questa splendida città schizoide ha in qualche modo partorito il mio romanzo.

Sei laureata in lingue orientali e, come già ci avevi spiegato in una precedente intervista, hai studiato giapponese e cinese contemporaneamente, quindi conosci bene anche la Cina. Dopo Shanghai anche Pechino rischia di tornare in lockdown. Dalle tue informazioni, qual è la situazione?
Mi ha scioccata sapere di quanto sta accadendo. Mi mandano foto raggelanti. Gabbie fuori dai cancelli che trasformano le persone in uccelli, elettricità staccata dagli ascensori. I miei amici di Shanghai sono sull’orlo di un esaurimento. Sembra a tutti impossibile che una città così viva si blocchi completamente, come se le luci oltre che negli ascensori le abbiano spente sulla vita, e la città fosse uno di quei modellini perfetti nei musei che mostra un’epoca: un’epoca disastrosa. Quando arrivò il Covid io ero appena tornata da Shanghai e sarei partita a breve per Pechino e non se ne parlava ancora, ma avevo intuito da una serie di informazioni, tra cui la titubanza della residenza di scrittura nell’acquistare il biglietto, c’era un non detto inquietante che aleggiava e che cercavo di interpretare, lo dicevo ai miei amici per metterli in guardia e nessuno mi prese sul serio, giustamente: le pandemie le abbiamo viste solo nei videogiochi e nei film americani.

Per chi come te ama la Cina, come vivi la sua ambiguità verso il conflitto tra Russia e Ucraina?
Penso esista solo un modo per vivere la guerra: con una grande pena.

La Cina, però, stavolta non ha contraccambiato il tuo amore. È vero che Fame blu non sarà tradotto in cinese perché la storia d’amore fra due donne sarebbe stata censurata?
Vero. Hanno detto che non solo si tratta di due donne che si amano, ma per giunta una è stata studentessa dell’altra: inammissibile! A me fa sorridere tutto ciò. La Cina è un Paese di immensa ricchezza filosofica e che amo incondizionatamente, dunque come si fa con una bambina discola ma geniale e adorata l’ho perdonata immediatamente, ma mi auguro che faccia passi avanti nel riconoscimento dei diritti Lgbt, cosa che d’altronde auguro anche all’Italia, che non è messa tanto meglio.

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