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Il sex work non è un crimine

Multe salate o addirittura mesi di carcere (fino a sei) per i clienti delle prostitute. È quanto prevede un disegno di legge, a firma della senatrice Alessandra Maiorino, che punta a penalizzare ulteriormente l'attività dei lavoratori e delle lavoratrici sessuali

foto di FETHI BELAID/AFP via Getty Images

Un vecchio mantra caro a molte donne è quello secondo cui, per tutelare chi fa “il mestiere più antico del mondo”, basterebbe punire chi il sesso lo compra. A ragionare in termini di domanda e offerta e poco altro a più di mezzo secolo di distanza dalla Legge Merlin è anche un disegno di legge presentato lo scorso febbraio, basato su un modello di gestione della prostituzione definito “nordico”, perché adottato nel 1999 in Svezia per poi essere scelto accolto anche da altri paesi tra il 2009 e il 2017, ossia Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord, Francia, Irlanda, Canada e Israele.

Nonostante lavoratrici e lavoratori del sesso ne denuncino l’inefficacia e più ancora i risvolti tragici, il modello nordico ha affascinato la senatrice Alessandra Maiorino del Movimento Cinque Stelle al punto da proporre una variante italiana che prevede multe e carcere per i clienti. Il rocambolesco coming–out di Maiorino come “swerf”, ossia come femminista radicale contraria al sex work, ha lasciato perplessi molti tra coloro che la ricordano come una delle promotrici della legge contro l’omo-lesbo-bi-transbifobia (prima con un proprio ddl, poi a sostegno di quello presentato dal deputato del Partito Democratico Alessandro Zan, affossato il 27 ottobre scorso).

La proposta Maiorino è una proposta contro i clienti senza però essere al tempo stesso una proposta per chi si dedica al sex work, così come era stata nel 2008 la legge Carfagna, che prevedeva di dare ai sindaci maggiore agibilità nel perseguire tale obiettivo. Ad accomunare la maggior parte dei dibattiti sul tema è la voce grossa di chi ha già deciso che vendere sesso debba essere necessariamente svilente, misero, drammatico, degrandante, e che tale condizione non permetta nemmeno di essere abbastanza forti per reagire e organizzarsi contro gli abusi. Ma che questa narrazione sia puro revisionismo storico lo spiega bene un libro tradotto in maggio da Tamu edizioni, dal titolo Prostitute in rivolta. La lotta per i diritti delle sex worker, scritto da Molly Smith e Juno Mac. – «Il lavoro più degradante che abbia mai fatto, dove mi sono sentita più sfruttata, è stato in fabbrica», vi si legge ad esempio.

Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista che ha scritto con Giulia Garofalo Geymonat la prefazione alla traduzione italiana del libro, precisa infatti che «i femminismi e il movimento delle donne hanno al loro interno posizioni differenti in merito. Noi, alleate delle lavoratrici sessuali, pensiamo che prima di tutto vada garantito il diritto all’esistenza per tutti e che vada riconosciuto che il sex work può essere un lavoro: questo significa riconoscerne le criticità ma anche i diritti, che vanno tutelati come per tutti i lavori. Vanno combattute tratta e sfruttamento ma al tempo stesso va combattuto lo stigma sul sex work e va aperto un reale confronto su un tema che resta divisivo, perché rientra nell’ambito della sessualità e della gestione del proprio corpo. Che sono ancora temi tabù nel nostro paese».

Nel corso di una presentazione di Prostitute in rivolta abbiamo potuto ascoltare anche alcune componenti di Ombre rosse, collettivo nato a Roma per contrastare sia le leggi fatte ‘su di noi senza di noi’, sia le varie forme di sfruttamento, discriminazione e violenza che conducono a pregiudizi sostenuti a volte «con argomentazioni pseudo-femministe». Una Ombretta (così si fanno chiamare tutte le persone del collettivo) ci ha spiegato che il ddl Maiorino fa alle sex workers ciò che spesso gli uomini fanno con le donne favorevoli all’aborto, nel senso che è una forma di paternalismo agito da donne e che si basa sul non-ascolto. E scrivere una legge senza nemmeno prendere contatto con le persone interessate, senza chiedere loro quali sono i provvedimenti oggi necessari, è quanto di peggio un parlamento possa fare. «Le sex worker non si aiutano criminalizzando la loro attività, casomai depenalizzandola e riconoscendo che il lavoro è centrale nella vita di tutti».

Inoltre il testo che accompagna il ddl Maiorino è per le realtà come Ombre Rosse «privo di fonti rispetto a certe affermazioni che contiene. Si legge ad esempio che le donne trans fanno sex work anche per un motivo “psicologico”, legato all’identità di genere, e che traumi, violenze e mancanza di prospettive sono i motivi alla base di questa scelta. Ma ragioniamo: se così fosse sarebbe una scelta fatta da molte più persone, in quanto traumi, violenze e mancanza di prospettive riguardano una fetta più grande della popolazione. Troviamo sia grave proporre una legge con bias così evidenti. Si basa su stereotipi e crea confusione».

Un’altra rimozione operata dal ddl Maiorino riguarda il modello neozelandese di decriminalizzazione del sex work, l’unico che lavoratrici e lavoratori del sesso prendano in considerazione, in quanto mette al centro i loro diritti, la loro salute e le loro esigenze, basandosi su un monitoraggio che tiene conto di cosa comporti non farlo, ossia ciò ciò che avviene con il modello nordico, il suo opposto. Quello neozelandese è adottato anche in tre stati australiani e più recentemente anche in Belgio. È la stessa Ombretta a spiegarcelo: con la scusa di offrire uno sguardo – il suo – sulla situazione nei paesi europei «Maiorino evita di menzionare cosa succede in Nuova Zelanda, dove si afferma che il lavoro sessuale è un lavoro. Al punto che un uomo che non aveva pagato una prestazione è stato raggiunto dalla polizia e accompagnato fino al bancomat, dove ha dovuto ritirare il compenso concordato con la donna e farglielo avere». Punire i clienti, precisa Ombretta, non serve, «perché loro troveranno altre vie – illegali – per ottenere le prestazioni senza mostrare i propri documenti», mentre lavoratrici e lavoratori saranno maggiormente marginalizzati e, quindi, esposti a forme di sfruttamento e di pressione sociale.

Per fare tutte le valutazioni del caso, comunque, bisognerebbe approfondire la situazione, come fanno il Gruppo di ricerca italiano su prostituzione e lavoro sessuale e i componenti del gruppo EcST, che  si oppongono fermamente al ddl depositato. C’è un grande sommerso, proprio perché non c’è ascolto, dice Ombretta: «Non a caso in Nuova Zelanda c’è meno stigma e molte più persone si dichiarano apertamente sex worker».

Una delle maggiori carenze del testo presentato da Maiorino e socie, inoltre, sta nella non conoscenza della questione della tratta: «Questo ddl non prevede di aiutare davvero le migranti, anzi: le espone ulteriormente al rischio di essere rimpatriate, oppure detenute nei CPR, nei CIE e negli hotspot», noti come luoghi dove si verificano violazioni dei diritti umani, nonostante la sentenza Khlaifia avrebbe dovuto spingere l’Italia a cessare tali forme di detenzione. «E dire che di leggi di contrasto al fenomeno della tratta ne esistono, pur non essendo ancora attuate com’era previsto, perché le misure necessarie per farlo sono sotto-finanziate. Avremmo bisogno di tavoli di confronto tra persone competenti per dirci cosa davvero serve, come ad esempio corsi di formazione tenuti da esperte e che prevedano la formula peer to peer per tutto il personale che può incontrare sex worker. Inoltre le unità di strada dovrebbero sempre includere una persona che ha fatto sex work e dovrebbe esserci supporto sia per chi vuole esercitare la professione, sia per chi vuole lasciarla». Servono insomma nuovi protocolli e un sistema di referaggio, come del resto vale per tutti i soggetti più esposti. «I progetti adottati in alcune città italiane sono validi e hanno un valore politico importante per noi», conclude Ombretta riferendosi a quelli che includono «forme mutualistiche e di condivisione di saperi piuttosto che forme di controllo della comunità di lavoratrici sessuali».

La discussione del ddl Maiorino non è ancora calendarizzata, ma gli effetti della sua circolazione si vedono già, come spiega Giulia Crivellini, tesoriera dei Radicali, che con altre attiviste, tra cui Pia Covre (presidente del Comitato per i diritti civili delle prostitute) fa parte del comitato direttivo di Certi Diritti. L’attuale parlamento, dice Crivellini, «inizialmente poteva sembrare progressista, ma poi ha dato il peggio di sé in tema di diritti. Lo abbiamo visto con le discussioni su fine vita, cannabis, aborto e ddl Zan. Ma specialmente attorno ai corpi delle donne, e a chi fa sex work c’è un fronte di parlamentari compatte» con Maiorino. “La sua, è chiaro, è una battaglia per raccogliere consenso e poi i voti per sé da parte di un certo femminismo reazionario, che dimostra di non conoscere a fondo i contenuti trattati in questo ddl”.

Crivellini ricorda che «nel 2019 la senatrice Maiorino commissionò un’indagine conoscitiva sul fenomeno della prostituzione senza però coinvolgere nessuna delle realtà pro-decreminalizzazione, tanto che per farci audire una volta in quella sede Pia Covre ed io ci auto-invitammo». Non a caso, la senatrice Loredana De Petris, capogruppo di Liberi e uguali al Senato, ha poi ritirato la firma dal ddl. Ma l’ignoranza causa danni importanti: «Lo vedo anche a livello locale quando come avvocata mi oppongo alle ordinanze anti-prostituzione, basate solitamente su concetti come quello di “buon costume”, che arrivano a a sanzionare con importi di 400-500 euro senza tenere conto delle conseguenze per le sex workers, comprese le vittime di tratta». Eppure, «il diritto è al fianco di chi fa sex work. Autodeterminazione, diritto alla salute, dignità, tutela della riservatezza… sono tanti i principi del diritto che la legge deve tutelare, e continueremo a farlo, dimostrando se necessario che le sanzioni sono illegittime».

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