Il romanzo di Luc Montagnier poteva avere un finale migliore | Rolling Stone Italia
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Il romanzo di Luc Montagnier poteva avere un finale migliore

In un mondo più giusto, staremmo salutando un progressista che ha contribuito in maniera significativa al nostro sviluppo come individui e membri della comunità; e invece ricorderemo il virologo francese come il feticcio di Gianluigi Paragone e del movimento No Vax

Il romanzo di Luc Montagnier poteva avere un finale migliore

Foto di Stephane De Sakutin / AFP via Getty Images

In un’epoca che non sembra più essere disposta ad ammettere mezze misure, una figura come quella di Luc Montagnier ha avuto il merito di intersecare – quasi – alla perfezione lo spirito di questi tempi nevrotici.

Anche la parabola terrena dello scienziato francese, scomparso ieri all’età di 89 anni, ha conosciuto due fasi antitetiche: la prima – che oggi, purtroppo, ha tutto l’aspetto di una fotografia sbiadita – è quella di un uomo di scienza stimato e di grande autorevolezza, biologo molecolare e virologo di fama internazionale, direttore emerito del Centre National de la recherche scientifiique e dell’Unità di Oncologia Virale dell’Istituto Pasteur di Parigi dove, nel 1983, coadiuvato dalla compagna e collega Françoise Barré-Sinoussi, scoprì il virus dell’HIV – un traguardo epocale, che iscrive di diritto la loro figura negli annali della ricerca scientifica e che, non a caso, valse alla coppia un premio Nobel per la medicina; la seconda, drammaticamente, è quella che, con ogni probabilità, rischia di consegnarlo ai posteri semplicemente come “Idolo dei No-Vax”, citando il titolo un po’ facilone che Il Giornale ha scelto per dedicargli l’ultimo saluto.

Una fase in cui Montagnier si è trasformato nella caricatura di sé stesso, diventando il megafono di teorie pseudo-scientifiche, dalla memoria dell’acqua – ossia la presunta proprietà dell’acqua di “ricordare” le sostanze con cui è venuta in contatto – agli studi sulle proprietà benefiche della papaya – che Montagnier considerava indispensabile per contrastare patologie come la SARS e il morbo di Parkinson – fino all’acquisizione del titolo di portabandiera della crociata contro i vaccini: una battaglia portata avanti con fede cieca, ora sposando la bufala conclamata della correlazione con l’autismo, ora presentandoli come una iattura capace di modificare il nostro DNA.

Questa doppia anima rende Montagnier un personaggio complesso da analizzare, anche perché nel contesto italiano non abbiamo termini di paragone attendibili. Il consesso della ciarlataneria mediatica nostrano non è in grado di reggere il confronto; le controparti domestiche sono delle timide comparse circensi, un manipolo di freak che abita le estreme periferie della comunità scientifica e che campeggia nei talk-show delle peggiori emittenti di provincia, sempre pronte a regalare al mistificatore di turno una vetrina utile per spennare lo sprovveduto della domenica sera, magari vendendogli il suo libricino auto-prodotto o finanziato da editori di parte, che hanno ben compreso che la fetta di mercato da riservare agli abitanti della tana del Bianconiglio è profondissima e molto remunerativa. Insomma, va da sé che, se paragonati al passato e al prestigio accademico di cui Montagnier ha goduto in vita, beh, i nostri fenomeni da baraccone si intravedono ridicoli come una calza arrotolata nelle mutande.

Negli ultimi anni della sua vita, il virologo francese è stato un vero e proprio opinion leader di quello che viene definito “pensiero non allineato”, una sorta di Charles Manson dell’anti-vaccinismo mondiale capace di infoltire le fila della sua Family senza il minimo sforzo. Il dividendo di autorevolezza guadagnato in passato gli ha permesso di sedurre un numero crescente di persone, indotte a convertirsi al suo Credo sulla base di una semplice dichiarazione o di una fugace comparsata televisiva – del resto, quando a cercare di persuadere l’opinione pubblica non è l’erborista di turno che promette di farti dimagrire a suon di tisane, ma un premio Nobel di consolidata fama, beh, il divario in termini d’influenza è incalcolabile.

Una buona prova del fatto che Montagnier avesse svestito da tempo i panni dello scienziato per indossare la tunica del santone ci è stata data dalle reazioni che sono seguite alla sua morte: sempre con riferimento al sottobosco italiano, da quando la testata Francesoir ha annunciato il decesso, il tamtam mediatico sui social da parte dei sostenitori del virologo è stato frenetico.

Un moto convulso sintetizzato alla perfezione dalla reazione di Gianluigi Paragone, che poche settimane fa lo aveva accompagnato nella manifestazione milanese contraria ai vaccini e che lo ha definito un “Maestro di vita”. Anche il canale di “contro-informazione” ByoBlu non ha perso occasione per cavalcare la vicenda, dedicando uno speciale alla memoria del virologo francese – volto noto e ospite frequente dell’emittente – e sfruttando l’occasione per rilanciare articoli in cui veniva annunciata la scoperta di “nuovi enzimi” in grado di abbattere il Covid. 

Un finale che non fa onore al suo passato e che, sinceramente, dovrebbe farci un po’ male: in un mondo più giusto, staremmo elogiando Montagnier per la sua lungimiranza e per le ricadute virtuose che le sue scoperte hanno generato non soltanto dal punto di vista scientifico, ma anche sociale. Basti pensare all’importanza che l’isolamento del virus dell’HIV – e il successivo approfondimento degli studi sulla malattia da esso generata, l’AIDS – ha rivestito nel restituire dignità ad alcune categorie di ingiustamente stigmatizzate: nel 1981, appena due anni prima dello storico traguardo raggiunto da Montagnier e Barré-Sinoussi, l’ipotesi più accreditata era che la sindrome colpisse unicamente le persone omosessuali. Tanto per rendere conto del clima dell’epoca, The Lancet – una delle riviste scientifiche più autorevoli al mondo – parlava senza troppi problemi di Gay compromise sindrome, mentre sui quotidiani nazionali di diversi Paesi si potevano leggere espressioni come “immunodeficienza gay-correlata (Grid)” e “cancro dei gay”.

Se vivessimo nel Paese delle meraviglie, staremmo salutando un progressista che ha contribuito in maniera significativa al nostro sviluppo come individui e membri della comunità, e non il feticcio dei Paragone, dei Messora e dei tanti mercanti di dubbi che siamo costretti a sorbirci su base quotidiana. But, my dear, this is not Wonderland and you are not Alice.

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