Il rischio per il caso Abu Akleh è diventare un dedalo di versioni contrastanti | Rolling Stone Italia
Politica

Il rischio per il caso Abu Akleh è diventare un dedalo di versioni contrastanti

Si moltiplicano le richieste di indagare a fondo sulla morte della giornalista di Al-Jazeera, che ha irrigidito una volta di più i rapporti tra Israele e Palestina, dove non cessano gli scontri

Il rischio per il caso Abu Akleh è diventare un dedalo di versioni contrastanti

Foto di Nasser Ishtayeh/SOPA Images/LightRocket via Getty Images

Non è solo la verità sul proiettile che mercoledì mattina ha ucciso Shireen Abu Akleh a essere diventata oggetto di contesa nel clima di sfiducia reciproca tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Il caso della cinquantunenne giornalista di Al-Jazeera porta con sé la difficoltà nel fare chiarezza tra le narrazioni incrociate della due parti in causa, nonché le possibili implicazioni internazionali di una vicenda che potrebbe assumere un significato diplomatico non secondario. Negli ultimi giorni si stava assistendo a una nuova fiammata di violenza tra israeliani e palestinesi. Abu Akleh, reporter palestinese con passaporto statunitense, stava documentando gli scontri avvenuti al campo profughi di Jenin, una delle città nel nord della Cisgiordania occupata. È lì che un colpo l’ha raggiunta alla testa.

Subito dopo la notizia dell’accaduto, il governo israeliano si è detto disposto a istituire un’indagine congiunta con l’Autorità palestinese per esaminare il proiettile che ha ucciso Abu Akleh. Proposta subito rispedita al mittente. L’autorità ha affermato che procederà con le indagini in modo indipendente, rifiutando le condizioni israeliane che avrebbero voluto portare il proiettile in un laboratorio autoctono per analizzarlo, ponendo a garanzia una supervisione internazionale. L’offerta era arrivata direttamente dal Ministro degli esteri Yair Lapid – poi confermata dalle parole del primo ministro Naftali Bennett. A indurire queste due posizioni hanno contribuito i fatti verificatisi venerdì durante le esequie di Abu Akleh, quando la polizia israeliana ha caricato la bara della giornalista diretta verso il cimitero del Monte Sion a Gerusalemme, interrompendo il percorso del feretro e facendo cadere la bara a terra.

 

 
 
 
 
 
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Il clima di sfiducia reciproca che circonda la fase iniziale delle indagini è alimentato dalle posizioni durissime che provengono da ambo le parti. Secondo quanto scritto da Hagai El-Ad, direttore esecutivo del Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati B’Tselem, alla base dell’iniziativa proposta da Israele ci sarebbero i timori dell’amministrazione Bennet sulle implicazioni diplomatiche che l’uccisione di Abu Akleh verosimilmente porterà con sé: «In effetti, Israele si impegna in una tale imbiancatura di alto livello solo se crede che l’uccisione di un palestinese possa danneggiare l’immagine del paese. Altrimenti, non se ne preoccupa nemmeno». El-Ad racconta come B’Tselem per decenni abbia cercato invano di coinvolgere i meccanismi investigativi interni di Israele quando si trattava di esaminare casi di palestinesi uccisi da forze di sicurezza israeliane. Il sistema, racconta El-Ad, sembrerebbe funzionare per garantire l’impunità: «Il meccanismo di indagine di Israele è chiaramente una farsa. Per cominciare, l’esercito ha il compito di indagare su sé stesso. I soldati vengono generalmente intervistati con domande accomodanti, non viene fatto quasi nessuno sforzo per raccogliere prove esterne e le indagini si protraggono per anni». El-Ad fa notare che quasi mai si procede alle indagini nei confronti di soggetti di alto rango, come a slegare qualunque possibile incidente dall’ipotesi che essi siano il prodotto di una decisione politica, più che un epilogo tragico frutto della negligenza del singolo.

B’Tselem ha da subito provato smontare l’ipotesi circolata inizialmente secondo cui sarebbe stato un colpo partito da parte palestinese a raggiungere Abu Akleh. Poco dopo l’uccisione, infatti, aveva iniziato a circolare un video che mostrava uomini armati palestinesi sparare in una strada cittadina. L’audio aveva catturato una voce urlare in arabo: «Ne hanno colpito uno, hanno colpito un soldato. È sdraiato a terra». Le immagini avevano fatto concludere a Israele che c’era un’alta probabilità che Abu Akleh fosse stata uccisa dai palestinesi e non dalle forze israeliane. Tale ipotesi è stata smentita B’Tselem, che ha notato come il luogo del video sia lontano diverse centinaia di metri da quell in cui risulta essere stata colpita a reporter.

La grande quantità di prove video e elementi di indagine emersi in questi giorni ha ammorbidito anche le posizioni iniziali di Israele, che ha annunciato l’apertura di un’indagine promettendo di fare ricorso al girato delle telecamere posizionate sui corpi delle proprie forze dell’ordine.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato alcuni elementi provenienti da un’indagine preliminare dell’esercito. In base a quanto riportano i documenti, al momento della morte, Abu Akleh si trovava a circa 150 metri di distanza da alcuni veicoli militari israeliani. Le ricostruzioni fatte da alcuni esponenti dell’esercito hanno iniziato a considerare che, in base alla posizione dei veicoli militari e dei soldati impegnati in quell’area a momento dell’uccisione, non è da escludere che la giornalista potrebbe essere stata colpita da un militare israeliano in un tentativo di rispondere al fuoco.

Oltre all’indagine attualmente in essere da parte dell’esercito israeliano, dall’estero si sono moltiplicati gli appelli l’avvio di un’indagine approfondita, soprattutto dagli Stati Uniti. Anche associazioni di tutela internazionale come Reporter senza frontiere ha preso posizione, parlando della possibilità che la morte di Abu Akleh, configuri una violazione della convenzione di Ginevra e di una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu sulla protezione dei giornalisti.