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Il regalo di Natale che vorremmo? Un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici

Negli ultimi 13 anni in Italia si sono registrati 1.503 fenomeni estremi, con 780 comuni colpiti e 279 vittime. Di quanti dati abbiamo bisogno ancora per darci una mossa?

Foto di Valeria Ferraro/SOPA Images/LightRocket via Getty Images

«Contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici agli impatti dei cambiamenti climatici e aumentarne la resilienza». Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica presenta così, fin dagli esordi, il suo Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico (Pnacc), quello pensato per pianificare cioè il modo in cui affrontare le future (e attuali) emergenze atmosferiche: la verità è che nessuno dei 4 Governi che si sono succeduti negli ultimi anni (Gentiloni, Conte, Conte Bis e Draghi) è riuscito formalmente a farlo entrare in vigore.

Gli obiettivi contenuti nel progetto avrebbero dovuto ormai esserci familiari da un pezzo, mentre ad oggi, invece, nella praticità di tutti i giorni fondamentalmente non esistono. Come se la pioggia e il fango caduti su Ischia qualche settimana fa – e tutti gli episodi simili degli ultimi mesi e anni – non fossero altro che frutto dei soliti capricci metereologici, stagionali e non del clima che cambia. E che continuerà a cambiare: ergo, questo piano ci serve – e in fretta – come l’aria che respiriamo. «Il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici non è un vincolo, ma una risorsa, uno strumento per non pagare in modo sempre più forte lo scotto di una crescita che avviene senza armonia con la natura», ha commentato a Pagella Politica Roberto Danovaro, docente di Biologia marina ed Ecologia marina presso l’Università Politecnica delle Marche. «Risparmierebbe molte vite».

Il Pnacc è sul tavolo dei Governi italiani dal 2016, dopo l’approvazione della Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Snacc) avvenuta nel 2015. Lo stesso anno in cui alla Cop21 di Parigi 195 Governi di tutto il mondo firmavano un accordo per contenere l’aumento della temperatura globale. Il documento italiano, in linea con le intenzioni mondiali, individua i settori del territorio maggiormente esposti al cambiamento climatico e propone delle azioni per attenuarne le conseguenze.

L’ultima bozza del Piano, risalente al 2018 e lunga più di 300 pagine, cerca di mantenersi sulla stessa lunghezza d’onda, quella della Strategia: suddivide l’Italia in 6 macro-regioni (fino ad un’analisi provincia per provincia), ne analizza le caratteristiche e sulla base di esse prova a ipotizzare cambiamenti e rischi per il futuro, con il fine ultimo di proteggere gli ambienti più vulnerabili e incrementare la loro capacità di adattamento e resistenza con azioni specifiche, pensate e ideate dalla collaborazione dello Stato con altri enti. Il documento è infatti stato redatto già in partenza con l’aiuto di organi tecnico – scientifici come il Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc) e altri istituti di ricerca. «Avevamo chiamato al ministero ricercatori ed esperti che hanno lavorato con passione, purtroppo poi il Piano è rimasto in un cassetto» ha ribadito a Repubblica l’ex ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti. Come ha spiegato a Wired Donatella Spano, advisor del Cmcc, per scrivere il Pnacc sono state immaginate due tipologie di scenari futuri: uno intermedio e l’altro più estremo, entrambi basati sui dati contenuti nel quinto rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) del 2014, uno degli organi più autorevoli in materia di cambiamenti climatici.

Ma per quale motivo, allora, dopo tutti questi anni il Piano è ancora lì, esattamente dov’era? C’entra, come spesso accade, la burocrazia. Nel 2018 – l’anno a cui per l’appunto risale l’ultima bozza – la Conferenza Stato-Regioni (attraverso cui governo, regioni e province autonome si coordinano) ha deciso di sottoporre il Pnacc a valutazione tecnica, di carattere ambientale. Dopo alcune analisi, gli organi coinvolti nelle verifiche suggeriscono alcune modifiche e integrazioni, poi via libera alla pubblicazione: è qui che la macchina governativa va in tilt e si blocca.

L’attuale Governo, guidato da Giorgia Meloni, ha espresso, almeno su carta, la volontà di riprendere da dove ci eravamo interrotti. Così almeno si legge nel programma elettorale presentato da Fratelli d’Italia per le recenti elezioni (vale ancora anche dopo le votazioni?): «Aggiornare e rendere operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici». L’argomento però, dopo la campagna elettorale, non è ancora stato seriamente ritirato fuori. «Sono passati sei anni da quando il Ministero dell’Ambiente ha avviato la procedura e la redazione del rapporto […] quel piano non è stato ancora formalmente approvato […] è inconcepibile» ha detto il 21 novembre Nello Musumeci, attuale Ministro per la Protezione civile e per le Politiche del mare. A suo dire, se mai ci sarà un’effettiva entrata in vigore, il documento «sarà già superato».

Su quest’ultimo aspetto i pareri sono contrastanti. Come detto poco fa, il Piano ipotizza degli scenari tenendo conto del quinto report Ipcc. Che poi è diventato il sesto: mentre l’Italia temporeggiava sull’approvazione del documento, nel 2021 il Gruppo intergovernativo ha tirato fuori la versione aggiornata del suo rapporto. Come è naturale che sia, dopo sette anni le informazioni e le conclusioni riportate dall’Ipcc sono cambiate su alcuni aspetti. Tuttavia a parere dell’ex ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti «il Piano è ancora valido. Almeno nella parte dei principi e delle analisi, come la suddivisione delle aree nazionali maggiormente esposte al cambiamento del clima». Dunque un punto di partenza ci sarebbe già.

Quello che rimane certo è che un piano come il Pnacc, che debba essere riscritto da zero o si basi su valutazioni già fatte, va attuato con una certa urgenza. È vero quelle che ha ribadito Enrico Giovannini, ex Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili del Governo Draghi, a Pagella Politica: il Governo negli anni ha comunque stanziato dei fondi per azioni volte a contrastare il cambiamento climatico. Allo stato delle cose però non basta: serve una strategia organica e continuativa. Come quelle adottate dal resto d’Europa. Paesi come Francia, Spagna, Germania e Paesi Bassi, ad esempio, possiedono già un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Mentre, come ha detto Danovaro, per «il nostro Paese che ha un livello di criticità complessiva forse superiore a quello di qualunque altro Paese europeo », ancora nulla di fatto.

Eppure, negli ultimi 13 anni, dal 2010 al 31 ottobre 2022 si sono registrati 1.503 fenomeni estremi, con 780 comuni colpiti e 279 vittime. Tra le regioni più colpite ci sono Sicilia (175 eventi estremi), Lombardia (166), Lazio (136), Puglia (112), Emilia-Romagna (111), Toscana (107) e Veneto (101). L’Italia intera. In generale negli ultimi vent’anni la probabilità che si verifichino eventi metereologici di questa portata è aumentata del 9%. E ancora. Nel 2019 i giorni di caldo intenso sono stati 29 in più rispetto al periodo 1961-1990, mentre entro il 2100 migliaia di chilometri quadrati di aree costiere italiane potrebbero finire sott’acqua.
Di quanti dati abbiamo bisogno ancora per darci una mossa?

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