Il PD è un adolescente immaturo che non capirà mai cosa vuole diventare da grande | Rolling Stone Italia
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Il PD è un adolescente immaturo che non capirà mai cosa vuole diventare da grande

Si è conclusa da poco quella (tristissima) sessione di psicanalisi collettiva che va sotto il nome di "Direzione Nazionale del Partito Democratico"; poteva essere l'occasione ideale per un po' di (sana) autocritica, e invece no: il PD continua a vivere in un mondo tutto suo da custodire per sempre, come in un classico Disney

Il PD è un adolescente immaturo che non capirà mai cosa vuole diventare da grande

Foto di ALBERTO PIZZOLI/AFP via Getty Images

Si è conclusa da poco quella (sofferta) sessione di psicanalisi collettiva che va sotto il nome di “Direzione Nazionale del Partito Democratico”. In teoria, l’occasione ideale per riflettere sulla batosta elettorale più clamorosa degli ultimi anni (che ha consegnato in dote al Nazareno un 18% dal retrogusto, neppure troppo velato, di completa disfatta), ricompattare gli animi e, soprattutto, far fronte una volta per tutte all’esigenza primaria, la più importante in assoluto: avviare un processo di riconsiderazione critica della propria identità, stilare una carta di valori condivisi in cui gli elettori – e non i vari capicorrente egoriferiti – possano finalmente riconoscersi, abbandonando una volta per tutte quell’incertezza che li ha condotti, di volta in volta, a indirizzare i voti verso altri lidi.

Sin dall’atto della sua fondazione, il PD ha assunto la forma di uno strano pastiche politico caotico e acchiappa–tutto, in cui chiunque avrebbe potuto individuare la propria collocazione: democristiani di sinistra, ex comunisti, socialisti in cerca di redenzione e neoliberisti innamorati del laissez faire più sfrenato, tutti compatti nella realizzazione di un ideale di ordine superiore. Nel bel mezzo di un pantano del genere, chiunque – in maniera del tutto legittima – si sentirebbe smarrito.

Nulla di cui stupirsi, se pensiamo che il più grande carrozzone ideologico mai partorito nella storia repubblicana affonda le proprie radici nel 2007, quando Berlusconi era un avversario invincibile per chiunque e, di conseguenza, si pensava fosse necessario unirsi per ricacciare una volta per tutte la minaccia comune; il problema è che, nell’arco degli ultimi quindici anni, i nemici da fermare hanno assunto identità di volta in volta diverse: i populismi euroscettici prima, il postfascismo oggi. La narrazione che i vertici hanno scelto di propinare agli elettori, però, non ha subito alcun aggiornamento: è rimasta la stessa, riassumibile in uno sterile «votate “noi” per fermare tutti gli altri», in una perfetta dicotomia buono–cattivo buona per il romanzetto di esordio di un liceale, non di certo per un partito con aspirazioni di governo.

Nel frattempo, come logica conseguenza, gli elettori hanno smarrito ogni punto di riferimento: gli operai e i dipendenti pubblici hanno iniziato a non sentirsi più rappresentati da un partito poco disposto al dialogo, gli insegnanti sono stati allontanati in massa dalla sterzata della “Buona Scuola” e la rincorsa al voto degli imprenditori si è rivelata, puntualmente, un buco nell’acqua (i nostalgici del berlusconismo non hanno mai fatto mancare il proprio appoggio al Cavaliere e, oggi, sembrano sentirsi maggiormente rappresentati da Calenda, interlocutore decisamente più affidabile e meno schizofrenico).

Il problema è tutto qui: l’elettore tipo del PD non esiste, non può contare sulle coordinate politiche giuste per sentirsi allineato all’indirizzo dettato dal partito. Come sbrogliare questa matassa? Non lo sapremo mai, perché la direzione ha assunto le fattezze dell’ennesima pantomima autoreferenziale, dando il via al giorno della marmotta più noioso e fuori tempo massimo di sempre: il dibattito interno è ancora schiacciato sui nomi (chi sarà il prossimo segretario? Bonaccini? Schlein? E, soprattutto, a chi interessa, in questa fase?) che sulle idee, e la sensazione è che l’eterno adolescente PD non abbia ancora deciso cosa voglia diventare da grande: un partito di “sinistra sinistra”? Un grande polo riformista e liberale? Non ci è dato saperlo.

La prima fase, si sa, dovrebbe essere quella dell’accettazione, quella in cui il paziente affetto da un male endemico riesce, finalmente, a venire a patti una volta per tutte quello che gli sta succedendo; bene, Letta ha deciso di saltare piè pari questo stadio: nell’analizzare le ragioni del disastro, ha attribuito la colpa della disfatta a Giuseppe Conte, che ha fatto cadere il governo Draghi aprendo la strada a tutte le insidie connesse all’eccezionalità del voto anticipato autunnale. Il misfatto, insomma, sarebbe da attribuire a «Quella interruzione ci ha intrappolati dentro una campagna elettorale “Draghi sì, Draghi no”». Non una parola sull’atteggiamento da eterni sconfitti assunto sin dall’inizio della partita elettorale e sulla (grave) incapacità di immedesimarsi con la propria base elettorale.

Neppure le percentuali più basse mai registrate sembrano in grado di turbare i sonni del buon Letta: il risultato elettorale, infatti, a sua detta sarebbe certamente deludente, ma «non drammatico», come hanno ripetuto anche nelle ultime ore i big del partito impegnati a respingere le sirene che evocano lo scioglimento della ditta. Del resto, sostiene Letta, con quasi il 20% dei consensi, i dem sono pur sempre la seconda forza parlamentare, dopo Fratelli d’Italia, e la prima dell’opposizione davanti ai Cinque Stelle.

Parole che sembrano suggerire che, anche questa volta, il processo di maturazione può essere rimandato: meglio continuare a crogiolarsi nelle belle bugie e dare seguito all’accanimento terapeutico che risolvere, una volta per tutte, tutti i nodi di una crisi d’identità decennale. Anche D’Alema, un notabile non proprio di primissimo pelo, ha commentato in maniera più lucida lo stato pietoso in cui versa il PD: «Io non so che rapporti abbiano i dirigenti del Pd con la società italiana. Mi domando persino dove prendano il caffè la mattina, perché il risultato ha detto esattamente l’opposto».

Purtroppo, l’ex presidente del Consiglio ha ragione da vendere: negli ultimi giorni abbiamo assistito a diversi segnali di scollamento che hanno reso evidente la distanza che separa la percezione che il PD ha di sé – un grande aggregatore di tutte le energie a sinistra, l’unica opzione possibile – da ciò che effettivamente ha finito per rappresentare, ossia un soggetto politico respingente per tutti.

Lo hanno esplicitato le manifestanti in difesa del diritto all’aborto che, a Roma, hanno folgorato l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, evidenziando come quella piazza non le appartenesse: «Voi non rappresentate nessuno. A lei delle persone che stanno nelle case popolari non gliene frega niente», ha detto senza mezze misure la manifestante. Anche il tentativo imbarazzato di Giani, presidente della regione Toscana, di mostrarsi vicino alla causa dei rider (salvo poi venire allontanato a suon di «vattene») riassume al meglio lo stato catatonico in cui versa un partito che non ha più nulla da dire.

Da questo punto di vista, uno dei (pochi) interventi sensati della surreale giornata di oggi è stato quello di Monica Cirinnà, per paradosso una di quelle personalità politiche che non ha centrato la rielezione: «In questi giorni ho seguito con attenzione il dibattito interno, e lo voglio dire con sincerità: tanti di noi, troppi di noi, non hanno più la credibilità per intestarsi un percorso di rinnovamento. Mi ci metto io per prima. Si tratta delle nostre responsabilità come classe dirigente: dobbiamo farcene carico e capire che adesso ci viene chiesto di fare un passo indietro». Vero, ma non è ancora abbastanza: più che rinnovare la classe dirigente, il PD dovrebbe scindere le sue (tante, troppe anime) e sacrificare una volta per tutte i personalismi sull’altare dei valori condivisi, che dovrebbero avere la precedenza su qualsiasi discussione interna relativa alla sistematizzazione del potere. Qui il problema non sono le persone, ma il messaggio confusionario, distorto e cerchiobottista propinato a una platea sempre più spiazzata.

In un video satirico pubblicato prima delle elezioni, il Terzo Segreto di Satira ha coniato uno slogan perfetto: alla domanda «Perché un elettore dovrebbe votare il PD?», i comici rispondevano che «Quando ti trovi nel deserto, anche la piscia è champagne». A quanto pare, però, il PD è ancora affetto dall’illusione di incarnare le ottime qualità di un buon vino francese d’annata: contenti loro.