Il Partito comunista cinese ha compiuto 100 anni | Rolling Stone Italia
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Il Partito comunista cinese ha compiuto 100 anni

Fondato nel 1921, governa il Paese dal 1949. Ha fatto la rivoluzione e garantito la grande crescita economica cinese degli ultimi decenni, ma anche governato in modo autoritario e reprimendo ogni dissenso

Il Partito comunista cinese ha compiuto 100 anni

Lintao Zhang/Getty Images

La Cina non permetterà più a nessuna forza straniera di bullizzarla, e chi ci proverà “finirà per schiantarsi ccontro un muro d’acciaio forgiato da 1,4 miliardi di persone”. È questo il messaggio più forte lanciato dal presidente cinese Xi Jinping questa mattina in occasione delle celebrazioni  per il centenaio della fondazione del Partito comunista cinese. “Non abbiamo mai bullizzato, oppresso o soggiogato nessun altro popolo e non lo faremo mai. E allo stesso modo non permetteremo a nessuno di bullizzare, opprimere o soggiogare la Cina”.

Un discorso – pronunciato dal balcone della Porta della pace celeste in piazza Tiananmen, sopra il famoso ritratto di Mao Zedong – che rimanda velatamente a un altro discorso, pronunciato proprio da Mao in occasione della fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, al termine della guerra civile, che cominciava con la celebre frase “il popolo cinese si è alzato in piedi”. Come a voler sottolineare gli elementi di continuità nelle differenze tra i diversi momenti della storia del Partito comunista e del Paese.

Fondato ufficialmente il 1 luglio del 1921 – una data scelta successivamente: la riunione segreta di fondazione si era tenuta il 23 – a Shanghai il Partito comunista cinese ha vissuto una lunga e difficile storia prima di conquistare il potere in Cina. Un primo periodo di collaborazione con il Partito nazionalista si è interrotto nel 1927, quando il presidente Chang Kai-shek ha rotto l’alleanza e ordinato il massacro dei comunisti cinesi; a ciò sono seguiti anni di guerriglia e resistenza ai continui tentativi di annientamento da parte dei nazionalisti culminati nella famosa “lunga marcia” voluta da Mao, nel frattempo diventato leader dei comunisti; poi un altro periodo di collaborazione con i nazionalisti per respingere l’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale; e infine una sanguinosa guerra civile terminata nel 1949, quando il governo nazionalista si è ritirato a Taiwan. In totale, 28 anni di combattimenti quasi ininterrotti. 

E anche la conquista del potere politico doveva essere solo l’inizio: il periodo maoista, chiusosi nel 1976 con la morte del leader, è stato caratterizzato dalla forte enfasi sull’ideologia e dalle difficoltà di portare il Paese nella modernità: il Grande balzo in avanti, voluto da Mao per superare le grandi potenze occidentali nella produzione industriale, si è risolto in un fallimento totale e ha provocato una terrificante carestia in cui hanno perso la vita milioni di persone; la Rivoluzione culturale, con cui Mao voleva combattere la nascita di una burocrazia interna al Partito, ha fatto sprofondare il Paese per un decennio in quella che era quasi una guerra civile.

Nel 1978 è nata la Cina post-maoista, che è poi la Cina di oggi: le riforme volute da Deng Xiaoping hanno introdotto sempre più elementi di mercato nel sistema economico cinese, riservando allo Stato solo la pianificazione economica complessiva e proiettando il Paese su una traiettoria di crescita sostenuta a ritmi mai visti prima nella storia. Anche il sistema politico è stato riformato, pur mantenendo l’architettura propria di un Partito comunista: la successione al potere è stata regolamentata affermando il principio della leadership collegiale e introducendo un limite di due mandati da 5 anni per i leader. I successori di Deng, Jiang Zemin e Hu Jintao, hanno proseguito la strada delle riforme e dell’inserimento a pieno titolo della Cina nella comunità internazionale – il cui punto di svolta è stato l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001.

Anche in questo secondo periodo della storia cinese non sono mancati i punti oscuri, il più noto dei quali è Tiananmen, noto in Cina come “incidente del 4 giugno”. La repressione del movimento di protesta degli studenti e delle classi medie urbane che chiedevano lotta alla corruzione, trasparenza e democratizzazione ha segnato un punto di svolta nella traiettoria delle riforme cinesi, mostrando quale sarebbe stata la loro natura: riforma e apertura economica sì, riforma politica no. Il sistema sarebbe rimasto autoritario e non democratico, e dopo il massacro di piazza Tiananmen si sarebbe affermato un nuovo patto sociale tra Partito e popolazione: la crescita economica e il miglioramento del tenore di vita in cambio della rinuncia a qualsiasi forma di libertà politica. Un patto sociale che negli ultimi 30 anni sembra aver retto molto bene. 

Xi Jinping, salito al potere come Segretario generale del Partito comunista cinese nel 2012, rappresenta qualcosa di nuovo – una sorta di sintesi tra i due periodi della storia cinese moderna. Da una parte ci sono le riforme e l’apertura del Paese, che non sono cessate ma sono rimaste il cardine della legittimità di un regime che oggi si trova a guidare la prima potenza commerciale e la seconda maggiore economia del mondo. Dall’altra c’è una nuova enfasi sull’ideologia, una nuova centralizzazione del potere nella sua figura e la rimozione delle regole di successione: Xi potrebbe rimanere presidente a vita, e il suo “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era” è stato inserito nella costituzione del Partito e dello Stato. 

Nel suo discorso di oggi, Xi ha riassunto le tappe fondamentali della storia del Partito, sottolineando come nei suoi primi 100 anni sia riuscito a raggiungere quello che era uno degli obiettivi che si era dato nel giorno della sua fondazione: costruire una “società moderatamente prospera in tutti gli aspetti”. “Abbiamo eliminato il sistema di sfruttamento feudale che è esistito in Cina per migliaia di anni e abbiamo stabilito il socialismo”, ha detto. “Il popolo cinese non sa solo distruggere il veccchio mondo, ma sa anche costruire un nuovo mondo. Solo il socialismo può salvare la Cina, e solo il socialismo con caratteristiche cinesi può sviluppare la Cina”. Senza il Partito comunista, ha detto Xi, non ci sarebbe la Cina di oggi. 

Una Cina di oggi che internamente manca di democrazia e trasparenza, censura internet e la stampa, non offre libertà politiche e solo adesso sta cominciando lentamente a costruire un sistema di rule of law. E che livello diplomatico è sempre più isolata: dossier come l’occupazione del Tibet, la repressione del movimento pro-democrazia di Hong Kong, e più di recente il riacutizzarsi delle tensione nello stretto di Taiwan, la questione della minoranza musulmana degli uiguri e il dibattito sulle origini del Covid-19, hanno aumentato le pressione sul Paese da parte della comunità internazionale.

Ma anche una Cina di oggi che – e su questo Xi Jinping ha ragione – dopo essere stata una semi-colonia è tornata ad avere il peso colossale nell’economia mondiale che aveva in tempi antichi. Arrivando a minacciare l’egemonia economica americana e finendo incastrata in quella che diversi analisti hanno ribattezzato “la trappola di Tucidide”. Ma rendendosi anche protagonista di quella che la Banca Mondiale ha definito “la più grande riduzione della povertà estrema nella storia umana”.