Il giorno del giudizio è arrivato, per l’Europa non cambierà proprio nulla | Rolling Stone Italia
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Il giorno del giudizio è arrivato, per l’Europa non cambierà proprio nulla

Francesco Saraceno, economista di Sciences Po, riflette sulle conseguenze - «poche» - del voto. E se la prende con il governo che, mentre Bruxelles cambia rotta, ha abbandonato il tavolo dell'istituzione più politica che ci sia

Il giorno del giudizio è arrivato, per l’Europa non cambierà proprio nulla

Foto: Getty Images

La campagna elettorale più lunga e meno appassionante di ogni tempo sta per volgere al termine: domenica 26 maggio si vota per rinnovare il parlamento, di cui all’Italia è chiamata a eleggere una settantina di nuovi membri. Per i sovranisti, condotti da Matteo Salvini, è l’occasione propizia per scardinare l’Europa e dare vita a qualcosa di diverso, in cui i vari Stati dell’Unione possano continuare a starsi sul cazzo tra loro, ma con meno vincoli. Per Luigi Di Maio la chance di rompere la dicotomia sovranisti (da cui si è reso conto di doversi distanziare giusto tre settimane fa) vs. governi dei banchieri, che sarebbero tutti coloro che non sono i sovranisti o i suoi sodali e a cui auspica non sia assegnata la maggioranza dei seggi. Infine ci sono gli altri, che giocano come sempre sulla difensiva e si pongono come argine all’avanzata dei barbari. Una scena tipo GOT, e ci riferiamo nello specifico alla sesta puntata dell’ultima stagione. 

“Il giorno del giudizio è arrivato”, è stato il messaggio veicolato dai nostri rappresentanti nelle ultime settimane. E, in attesa del redde rationem, le ultime settimane sul fronte della politica interna sono state caratterizzate dal più immobile degli immobilismi, ravvivato solo dagli scazzi tra i due uomini forti della maggioranza di governo. «Indovinate un po’? Lunedì non sarà cambiato nulla», commenta Francesco Saraceno. Vice Direttore dell’OFCE, il centro di ricerca sulle congiunture economiche di Sciences Po a Parigi, dove insegna Macroeconomia, e autore del libro La scienza inutile – Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia, è da lui che ci facciamo aiutare a capire quali prospettive si apriranno dopo il voto e quali scenari potrebbe affrontare il nostro Paese, nei guai com’è da un punto di vista dei conti pubblici. 

Perché non cambierà nulla, diceva?
Prima di tutto perché difficilmente ci sarà il cambio di rotta politico di cui si parla tanto: certamente non ci sarà una maggioranza sovranista, a patto che possa avere senso formarne una, visto che i vari soggetti politici dell’area litigano su tutto. Quindi con ogni probabilità si farà una grossa coalizione con socialisti, conservatori e altre formazioni, che possono andare dai macronisti ai liberali oppure i verdi. E questa nuova maggioranza accompagnerà il cambiamento dell’Europa, che ci sarà. Ma si farà altrove rispetto al parlamento, nel centro della vita dell’Istituzione: il Consiglio. 

Chi dice che l’Europa non cambierà mai, perché ha come unico obiettivo l’autotutela di se stessa (e dei propri membri più influenti), quindi sbaglia?
Parte da un presupposto sbagliato. Si è diffusa, soprattutto in Italia, un’idea profondamente errata: che l’Europa sia composta da grigi burocrati con la calcolatrice sempre in mano – senza capire nulla di economia -, e che basterebbe un governo scaltro, in grado di mettere in campo le politiche giuste, per sbaragliarla. Invece l’Europa è una complessa macchina, in cui le cose possono cambiare, ma solo attraverso processi politici.

Quella dei tecnocratici è dunque una balla?
L’Europa, ripeto, è un’organizzazione profondamente politica e molto poco tecnocratica. Se negli anni si sono fatte certe politiche è perché i vari leader coinvolti le condividevano: Renzi e Macron – solo per stare in una parte del campo, dall’altra è a maggior ragione così – credevano e credono nelle misure economiche dei loro governi, non hanno preso certe decisioni perché gliele chiedeva l’Europa. Pensiamo allo scontro tra l’Italia e la Commissione sul deficit di casa nostra: se a Bruxelles ci fossero stati solo dei tecnocrati saremmo in infrazione da un pezzo, invece la Commissione sapeva bene che l’Italia cercava lo scontro come carta da giocare in campagna elettorale. E politicamente ha evitato di metterci in mano il jolly.

L’Europa sta capendo i propri errori, ed è pronta a cambiare rotta?
Se abbia capito i propri errori non lo so, di certo oggi si discutono materie che 3 o 4 anni fa erano tabù. Dopo 30 anni a sostenere che la libera concorrenza sul mercato fosse l’unica soluzione possibile, mentre Cina e Usa investivano pesantemente nei settori strategici. Ora tedeschi e francesi si sono mossi per la fusione Alstom-Siemens, si parla della creazione di “campioni europei”. Non sono per forza idee giuste, ma almeno un dibattito è lanciato.

Il dogma del mercato che si autoregola si sta un po’ sgretolando?
Ha retto per un periodo molto lungo. I nostri rappresentanti in Europa hanno fatto avvitare la politica economica sugli aggiustamenti di mercato: qualunque cosa succedesse la risposta era “fai riforme, privatizzazioni e austerità e vedrai che tutto si sistemerà”. Una visione che la sinistra ha accettato acriticamente, all’interno di una dinamica che un tempo si sarebbe definita di egemonia culturale. Ora bisognerebbe approfittare dell’occasione del voto per spingere sulle riforme sulle regole comuni, invece noi facciamo la battaglia sui punti percentuali di deficit. Mentre si aprono degli spiragli, noi abbandoniamo i tavoli che contano.

Cosa dovremmo dire a quei tavoli?
Che servono forti investimenti pubblici sulla transizione ecologica, per fare un esempio. Provare a condizionare quella nuova “politica industriale” di cui si parlava prima, che funziona solo se si punta sulle eccellenze e non sul protezionismo. Ma prima di tutto occorre esserci a quel tavolo. Tra le tante che non vanno, è quella che maggiormente imputo al governo: bisogna stare nei luoghi in cui si discute e si prendono le decisioni. Ogni processo politico, dal 1950 a oggi, avanza per compromessi e rapporti di forza. La politica della sedia vuota del governo italiano non paga, solo che i ragazzini arroganti che abbiamo al potere non lo sanno. Oppure decidano di uscire dall’Europa, ma se il Regno Unito si è accorto che sarebbe un bagno di sangue figuriamoci per noi. 

Tutto questo lo affronteremo in un contesto di crisi economica feroce. Che possibilità ci sono di evitare il disastro?
Nessuno ha la palla di vetro: è difficile stabilire se nei prossimi mesi si continuerà con la crescita zero oppure ci sarà una vera e propria recessione. Il fatto è che il modello economico europeo si è dimostrato incapace di generare crescita e appena il resto del mondo starnutisce, il nostro continente prende l’influenza. All’Italia, invece, viene direttamente la polmonite. Questo perché il nostro Paese è in difficoltà strutturale, che non dipende né da questo governo – pur totalmente inadeguato ad affrontare la situazione – né dal precedente, né tanto meno dall’adozione dell’Euro, al di là di quello che strilla la grancassa sovranista. 

E di chi è colpa allora?
Provo a riassumere al massimo. Il boom economico degli anni ’50 e ’60 era stato spinto da un mix di campioni nazionali – per le esportazioni – e piccole e medie imprese – per le cosiddette innovazioni di processo. Finché eravamo parte di un mondo chiuso, il modello ha funzionato alla grande. Quando la globalizzazione ha cambiato le cose e questo sistema per mille motivi si è rivelato inadeguato, non siamo riusciti a reinventarci, come hanno invece fatto i tedeschi. Erano gli anni del Pentapartito e, invece di mettere in campo le strategie adatte, abbiamo fatto svalutazioni, salvato industrie decotte e aumentato il debito. L’Euro ha impedito di adottare queste misure, che erano sbagliate e controproducenti. 

L’equilibrio di bilancio, quindi, è l’unica strada?
Il totem dell’equilibrio di bilancio non mi è mai appartenuto, e mai mi apparterrà. Ma il punto è come si spendono i soldi in deficit, di certo la soluzione non sono le misure elettoralistiche, eterogenee, contraddittorie e inefficaci del nostro governo.

Stiamo buttando nel cesso i soldi?
L’hai detto meglio di me. 

E come si potevano spendere in modo migliore?
Se il governo a ottobre fosse andato dalla Commissione dicendo “signori belli, facciamo deficit per rifare tutti i ponti pericolanti in Italia oppure la banda larga”, Bruxelles avrebbe avuto un altro atteggiamento, come già avvenuto in passato. Non sono dei cretini: sanno che l’Italia ha dei problemi di crescita e per questo deve attuare politiche sul lungo periodo, che quindi costano soldi. Il nostro problema non sono i saldi o le percentuali del deficit, ma che, come hai detto tu, si buttano nel cesso i soldi.