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Il fascismo compie 100 anni, ma è più in forma che mai

Il 23 marzo 1919 Mussolini fondava i Fasci di combattimento a Milano. Oggi quella retorica è ovunque e la storia di una dittatura è stata distorta a suon di bufale e autoassoluzioni

Bottiglie celebrative del fascismo in un locale di Udine

Per trovare un nostalgico di Benito Mussolini in Italia non c’è bisogno di aspettare domani, quando, c’è da scommetterci, un minuscolo esercito di teste rasate e bracci tenditori cercheranno il modo di celebrare i 100 anni dalla nascita del fascismo, sfidando buon gusto e divieti. Soprattutto a Milano, dove il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro il futuro duce, in compagnia di un gruppetto di mezzi derelitti – così, per lo meno, ha raccontato l’episodio Antonio Scurati nel suo M -, fondò i Fasci italiani di combattimento, che in pochi mesi sarebbero passati dall’irrilevanza a un ventennio di terribile dittatura.

Oggi i tributi a Mussolini non sono più circoscritti a una limitata cerchia di anime nere, ma sono diventati mainstream. L’attualità ce ne fornisce esempi ogni giorno: dai meme e i post apologetici sui social, a uscite come quella recente della candidata leghista alle regionali in Basilicata, che durante un comizio ha gridato ai suoi contestatori “se fascista vuol dire difendere il popolo, allora io sono fascista” (no, fascista non vuol dire quello). Oppure, salendo e non poco di livello, il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani, che pochi giorni fa ha spiegato che Mussolini ha “fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche”.

Questo vuoto refrain ha ispirato il nuovo libro dello storico Francesco Filippi Mussolini ha fatto anche cose buone, edito da Bollati Boringhieri, che ha come sottotitolo “Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”. «Il mio è l’ennesimo tentativo storiografico di distruggere le fake news, che un tempo avremmo chiamato semplicemente balle, che circolano sul fascismo e sul suo leader», spiega.

Il punto non è quanto l’iniziativa di questo o quel ministro oggi rimandi al regime in camicia nera, argomento quotidiano da talk show, né quanto il razzismo oggi dilagante nella nostra società ricordi gli anni ’30. Ma la popolarità di cui oggi gode in una vasta fascia della popolazione un periodo su cui la storia ha già espresso il suo giudizio, e che invece un secolo dopo è stato completamente riabilitato, rimossi i suoi abomini, la privazione della libertà e la guerra.

«Già negli anni ’90 è venuta meno la diga della Repubblica nata dalla Resistenza, con il cosiddetto arco costituzionale che aveva messo sotto un velo di tabù l’esperienza fascista. Negli ultimi 25-30 anni si è assistito a un cambiamento radicale di lessico – non in seno alla storiografia, che ha continuato a studiare e raccontare il fenomeno con metodo scientifico –, per cui oggi non fanno più paura le parole associate a quell’esperienza. Il fascismo, come sosteneva Umberto Eco, è stato prima di tutto retorica, più ancora che ideologia. Gli italiani, oggi più che in passato, hanno un serio problema connesso al proprio modo di parlare. E questo veicola, oltre a un modo di vivere il presente pericoloso, una lettura del passato del tutto falsa».

Il nostro rapporto con quelle pagine nere della storia patria non pare più in alcun modo motivo di imbarazzo, né tanto meno si avverte la necessità di un’espiazione collettiva. Più che in altri Paesi che hanno vissuto in prima persona l’esperienza dei totalitarismi del ‘900? «Ogni Stato fa caso a sé», dice Filippi. «In Germania, una storia di cui mi sono occupato a lungo, è stato imposto un ragionamento sul passato nazista, che rimane abbastanza solidamente incardinato nel discorso pubblico. In Italia, e non solo lì, questo non è avvenuto, anche perché nel 1945 c’era una grande fretta di ricostruire. Scaricare le colpe su un nemico assoluto, in questo caso Hitler, era utile a tutti».

L’idea dell’italiano buono e del cattivo tedesco, come quella secondo cui saremmo stati una specie di colonialisti illuminati, è stata veicolata insistentemente per anni, con l’obiettivo davvero mal celato di velare le nostre pesanti colpe storiche. «Nei suoi vent’anni al potere, il fascismo ha avuto inevitabilmente vicende ondivaghe. Negli anni ’30 Mussolini si vantava di essere il maestro di Hitler, che riconosceva questo “merito” al duce. Quando i pesi specifici si spostano, Mussolini diventa il servo sciocco del regime nazista. Nella storiografia italiana è stata coniata la parola “nazifascismo” per indicare il periodo tra il ’43 e il ’45 in cui i due regimi erano talmente simili da diventare la stessa cosa, ma questo prevede che prima ci fosse un fascismo diverso, più umano. L’idea di una rottura è molto indicativa di come trattiamo il nostro passato».

Se oggi molta gente può nuovamente dirsi fascista con leggerezza, è anche colpa di chi ha lavorato anni alla costruzione di un certo clima politico e culturale. In questo senso, sostiene Filippi, la narrazione dei pregi del regime ha avuto un ruolo tutt’altro che secondario. «Gli argomenti sono quelli che avrete senz’altro già sentito. Oppure il fatto che i treni fossero in orario, una castroneria tremenda: i treni nel ventennio continuarono ad arrivare in ritardo, come avviene da sempre in Italia, perché Mussolini non era riuscito a sistemare la rete ferroviaria. Allora dal ’26 in poi proibì semplicemente ai quotidiani di parlarne, tramite una censura motivata dalla difesa dell’onore patrio».

E poi il mito del duce previdente e previdenziale, che avrebbe dato a tutti le pensioni e edificato il welfare italiano. «Una falsità: le pensioni sono di fine ‘800 e lo stato sociale moderno è una conquista della fase repubblicana. Per quanto riguarda le bonifiche, invece, gli interventi nell’Agro Pontino proseguirono fino agli anni ’60, perché le zone malariche non erano calate sensibilmente», conclude Francesco Filippi. Dinamiche che raccontano molto bene il modo in cui il fascismo lavorava sull’immaginario delle persone, per creare, spesso attraverso bufale o mezze verità, il mito di se stesso. A livello di opinione pubblica, dando uno sguardo alle cronache di cento anni dopo, paiono proprio aver fatto le cose per bene.

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