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Il coronavirus e la fine del secolo americano

Le epidemie hanno un modo particolare di cambiare il corso della storia: il coronavirus ha distrutto il mito dell'eccezionalismo americano, mostrato tutte le contraddizioni degli Stati Uniti e fatto capire al mondo che il secolo americano è definitivamente finito

Il coronavirus e la fine del secolo americano

Gary Hershorn/Getty Images

Mai nella nostra vita avevamo fatto esperienza di un fenomeno così veramente globale. Per la prima volta nella Storia, tutta l’umanità è unita e concentrata nel fronteggiare la stessa minaccia, consumata dalle stesse paure e incertezze, speranzosa verso le stesse ancora irrealizzate promesse della scienza medica. In una singola stagione, la civiltà è stata abbattuta da un parassita microscopico diecimila volte più piccolo di un granello di sale. Il COVID-19 attacca i nostri corpi, ma attacca anche i fondamenti culturali delle nostre vite, le nostre comunità e i nostri rapporti sociali, che sono per l’essere umano quello che gli artigli e i denti sono per una tigre.

Per il momento, i nostri interventi si sono concentrati più che altro sul ridurre la diffusione della pandemia, abbassando la curva. Non c’è una cura a portata di mano e il vaccino non è ancora all’orizzonte – il vaccino più rapido che sia mai stato sviluppato ha richiesto 4 anni di lavoro. In 4 mesi, il COVID-19 ha ucciso 100mila cittadini statunitensi. Ci sono alcuni indizi del fatto che l’infezione non provochi l’immunità, il che sta portando qualcuno a chiedersi quanto potrà mai essere efficace un vaccino, anche supponendo che se ne trovi uno. E senza contare il fatto che deve essere sicuro dagli effetti collaterali: se dobbiamo immunizzare l’intera popolazione globale, allora un effetto collaterale letale che si verificasse anche solo in un caso su mille provocherebbe la morte di milioni di persone.

Le epidemie hanno un modo particolare di cambiare il corso della storia, in un modo che non è sempre immediatamente evidente a chi vi sopravvive. La peste nera del XIV secolo ha ucciso quasi la metà della popolazione europea: la scarsità di forza lavoro ha poi portato a salari più alti, e le maggiori aspettative dei lavoratori hanno portato a rivolte che hanno scandito l’inizio della fine del feudalesimo che aveva dominato l’Europa medievale per mille anni. La pandemia di coronavirus verrà ricordata come un momento del genere, un evento il cui significato sarà chiaro solo dopo la crisi. Segnerà profondamente questo secolo, così come l’assassinio dell’arciduca d’Austra Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914, la crisi del 1929 o l’ascesa al potere di Hitler nel 1933 sono stati punti di svolta del secolo precedente.

Il significato storico del coronavirus non sta tanto in come cambiano le nostre vite quotidiane. Il cambiamento, in fin dei conti, è una costante dal punto di vista culturale: tutte le persone in tutti i luoghi in tutti i momenti si trovano sempre ad affrontare cambiamenti e nuove possibilità di vita. Le aziende eliminano o snelliscono i loro uffici, gli impiegati lavorano da casa, i ristoranti chiudono, i centri commerciali anche, lo streaming porta l’intrattenimento e gli eventi sportivi nelle nostre case e i viaggi in aereo diventano ancora più brutti e problematici. Ma a tutti queste cose le persone si adatteranno, così come hanno sempre fatto. Come ci insegna la storia, la fluidità della memoria e la capacità di dimenticare è forse il tratto più caratteristico della nostra specie, con cui riusciamo ad adattarci al progressivo peggioramento della cultura, della società e dell’habitat in cui viviamo.

Certo, l’incertezza economica avrà importanti conseguenze. Per qualche tempo l’economia mondiale dovrà venire a patti con il fatto che tutti i soldi a disposizione di tutte le nazioni della Terra non saranno mai abbastanza per coprire le perdite generate dal fatto che per un certo periodo l’intero mondo ha smesso di funzionare, con lavoratori e imprenditori costretti a scegliere tra sopravvivenza economica e biologica. Ma, per quanto queste circostanze e queste transizioni possano essere destabilizzanti, salvo un eventuale completo collasso economico, non saranno punti di svolta nella Storia. Quello che invece lo sarà è l’impatto assolutamente devastante che la pandemia ha avuto sulla reputazione internazionale degli Stati Uniti d’America.

L’epidemia ha infatti distrutto l’illusione dell’eccezionalismo americano. Al culmine della crisi, con oltre 2000 compatrioti che morivano ogni giorno, i cittadini americani si sono ritrovati a vivere in uno Stato fallito, guidato da un governo incompetente e disfunzionale, su cui pensa la gran parte della responsabilità del numero dei morti e che ha scritto il finale tragico del sogno di supremazia mondiale degli Stati Uniti. Per la prima volta, la comunità internazionale ha sentito il dovere di mandare aiuti umanitari agli Stati Uniti. Per più di due secoli, ha scritto l’Irish Times, “gli Stati Uniti hanno provocato un gran numero di sentimenti nel resto del mondo: amore e odio, paura e speranza, invidia e disgusto, soggezione e rabbia. Ma c’è un sentimento che finora non era mai stato provato nei confronti degli Stati Uniti: pietà”. Mentre i medici americani aspettavano i carichi di aiuti d’emergenza dalla Cina, si è aperto un capitolo nuovo della Storia: il secolo asiatico.

Nessun impero dura a lungo, anche se pochi riescono a vedere la sua fine. Ogni regno nasce e muore. Il XV secolo è stato portoghese, il XVI spagnolo, il XVII olandese. Il XVIII è stato il secolo dominato dalla Francia, il XIX dalla Gran Bretagna. Distrutta dalla prima guerra mondiale, la Gran Bretagna ha mantenuto un dominio di facciata fino almeno al 1935, quando il suo impero ha raggiunto il suo apogeo. Ma già in quel momento la torcia era passata nelle mani degli Stati Uniti. Nel 1940, con l’Europa in fiamme, gli Stati Uniti avevano un esercito più piccolo di quello del Portogallo o della Bulgaria. Nel giro di 4 anni, 18 milioni di uomini e donne avrebbero indossato l’uniforme, e altri milioni avrebbero fatto i doppi turni nelle miniere e nelle fabbriche che trasformarono l’America, come aveva promesso il presidente Roosevelt, nell’arsenale della democrazia.

Quando, sei settimane dopo Pearl Harbor, i giapponesi avevano preso il controllo del 90% della produzione mondiale di gomma, gli Stati Uniti avevano ridotto il limite di velocità a 50 km/h per risparmiare pneumatici e poi, nel giro di tre anni, inventato da zero un’industria della gomma sintetica che avrebbe permesso alle armate degli Alleati di sconfiggere i nazisti. Al suo picco, Willow Run Plant di Henry Ford produceva B-24 Liberator ogni 2 ore, 24 ore al giorno. I cantieri navali di Long Beach e Sausalito avevano prodotto una media di due navi Liberty al giorno per quattro anni, e il loro record era di aver costruito una nave in 4 giorni, 15 ore e 29 minuti. Una singola fabbrica americana, l’arsenale di Detroit della Chrysler, aveva costruito da sola più carri armati di tutti quelli prodotti nel Terzo Reich.

Alla fine della guerra, con l’Europa e il Giappone in macerie, gli Stati Uniti avevano solo il 6% percento della popolazione mondiale ma la loro economia rappresentava il 50% di quella mondiale, e producevano il 93% delle automobili al mondo. Un tale dominio economico ha dato vita a un vibrante ceto medio, a un movimento sindacale le cui conquiste permettevano a famiglie con un solo lavoratore senza educazione superiore di possedere una casa e una macchina e mandare i figli in ottime scuole. Non era un mondo perfetto, ma tale ricchezza aveva permesso una tregua temporanea nel confitto tra capitale e lavoro, un gran numero di opportunità in un momento di rapida crescita economica e di riduzione delle disuguaglianze grazie a una forte tassazione sulla ricchezza – i ricchi non erano stati gli unici a beneficiare dell’età aurea del capitalismo americano.

Ma libertà e ricchezza avevano un prezzo. Gli Stati Uniti, una nazione che prima della seconda guerra mondiale era praticamente de-militarizzata, dopo la vittoria non è mai tornata tale. Ancora oggi, i soldati americani sono presenti in 150 Paesi. Dagli anni Settanta, la Cina non è mai stata in guerra; gli Stati Uniti non sono stati un singolo giorno in pace. L’ex presidente Jimmy Carter ha di recente fatto notare che in tutti i loro 242 anni di Storia, gli Stati Uniti sono stati in pace solo per 16 anni, il che li rende “la nazione più guerrafondaia nella Storia del mondo”. Dal 2001, gli Stati Uniti hanno speso oltre 6 trilioni di dollari in operazioni militari e guerre, soldi che avrebbero potuto spendere in infrastrutture. Nello stesso periodo, la Cina ha costruito letteralmente la sua nazione, usando ogni tre anni più cemento di quanto ne abbiano usato gli Stati Uniti in tutto il XX secolo.

Mentre gli Stati Uniti facevano i poliziotti del mondo, la violenza tornava dentro casa loro. Il 6 giugno 1944, giorno dello sbarco in Normandia, sono morti 4414 soldati Alleati. Nel 2019, a fine aprile la violenza domestica con armi da fuoco aveva già ucciso altrettanti uomini e donne americane. A giugno dello stesso anno, i crimini con armi da fuoco negli Stati Uniti avevano ucciso più persone del numero di soldati persi dagli Alleati in Normandia nel primo mese di operazioni militari.

Più di ogni altro Paese, gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale hanno stimolato l’individualismo a spese della famiglia e della comunità. È stato l’equivalente sociologico della fissione nucleare. Ciò che è stato guadagnato in termini di mobilità e libertà personali è stato bilanciato dalla perdita di uno scopo comune. In larga parte d’America, la famiglia è un’istituzione che ha perso il suo fondamento. Ora degli anni Sessanta, il 40% dei matrimoni finivano in divorzio. Solo nel 6% delle case americane i nonni vivevano sotto lo stesso tetto dei nipoti: la maggior parte di loro era abbandonata negli ospizi.

Slogan come “24/7” avevano celebrato la dedizione completa al posto di lavoro: uomini e donne arrivavano all’esaurimento facendo lavori che servivano solo a rinforzare la loro alienazione dalle loro famiglie. Il padre di famiglia medio americano oggi passa meno di 20 minuti con suo figlio. A 18 anni, l’americano medio ha passato 2 anni guardando la televisione o al pc. Solo metà degli americani hanno interazioni sociali significative, faccia a faccia, ogni giorno. La nazione consuma due terzi della produzione mondiale di antidepressivi. Il collasso della famiglia media è stato in parte responsabile dell’epidemia di oppiacei che ha superato gli incidenti d’auto come prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni.

Alla radice di questa trasformazione e di questo declino sta la spaccatura che non fa che allargarsi tra gli americani che hanno tutto e quelli che hanno poco o nulla. La disparità economica esiste in tutti i Paesi, creando una tensione che può essere distruttiva man mano che le disuguaglianze aumentano. In molti contesti, tuttavia, le forze negative che minacciano di distruggere la società vengono mitigate o persino cancellate da altri elementi che contribuiscono a rinforzare la solidarietà sociale – la fede religiosa, la forza della famiglia come rete di sicurezza, l’orgoglio per le tradizioni, l’amor di patria.

Ma quando tutte le vecchie sicurezze si rivelano false, quando la promessa di una vita confortevole crolla mentre le fabbriche chiudono e i dirigenti, sempre più ricchi, delocalizzano all’estero, il contratto sociale si rompe. Per due generazioni, gli Stati Uniti hanno celebrato la globalizzazione quando, come ogni lavoratore può vedere, questa non ha creato nulla se non la possibilità per il capitale di muoversi alla ricerca di una forza lavoro sempre meno costosa.

Per molti anni, i conservatori americani hanno fatto leva sulla nostalgia per gli anni Cinquanta e per un’America immaginaria e mai esistita per razionalizzare il loro senso di abbandono, la loro paura del cambiamento, il loro risentimento e il loro disgusto per i movimenti sociali degli anni Sessanta – un momento in cui donne, omosessuali e neri hanno conquistato nuove possibilità. In realtà, almeno in termini economici, gli Stati Uniti degli anni Cinquanta somigliavano più alla Danimarca che non agli Stati Uniti di oggi. Le tasse sulla ricchezza arrivavano al 90%. I salari dei dirigenti erano, in media, solo 20 volte quelli dei loro impiegati – oggi, sono mediamente 400 volte più alti, senza contare stock options e benefit. L’1% degli americani controlla 30 trilioni di asset, mentre il 50% più povero ha più debiti che proprietà. I tre americani più ricchi hanno più soldi dei 160 milioni di loro compatrioti più poveri. Un quinto delle famiglie americane non possiede risparmi o ha dei debiti, cifra che sale al 37% per le famiglie nere. La ricchezza media di una famiglia nera è un decimo di quella di una famiglia bianca. La grande maggioranza degli americani è a due stipendi dalla bancarotta. Anche se vivono in una nazione che si celebra come la più ricca della Storia.

Il COVID-19 non ha abbattuto gli Stati Uniti, ha semplicemente rivelato ciò che per lungo tempo si era dimenticato. Con l’arrivo della crisi, un Paese che un tempo produceva un aereo da caccia all’ora non è stato in grado di produrre abbastanza tamponi e mascherine per tracciare la diffusione del virus. La nazione che ha sconfitto la polio e ha guidato il mondo per decenni dal punto di vista delle innovazioni e delle scoperte mediche ha fatto ridere tutto il mondo quando il suo presidente ha detto alla gente di iniettarsi il disinfettante per curare il coronavirus.
Mentre un sacco di Paesi si muovevano rapidamente per contenere la malattia, gli Stati Uniti sono rimasti fermi nel loro diniego. Con meno del 4% della popolazione mondiale, gli Stati Uniti contano da soli un quinto di tutte le morti per COVID-19. La percentuale di vittime americane della malattia è sei volte più alta della media mondiale. Eppure detenere il record mondiale di casi e di morti non ha provocato vergogna ma ha solo stimolato ulteriori bugie, ricerche di capri espiatori e teorie del complotto.

Mentre gli Stati Uniti hanno risposto alla crisi come una dittatura corrotta, i dittatori veri hanno colto l’opportunità di ottenere la superiorità morale – specialmente dopo la morte di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis. Il leader ceceno Ramzan Kadyrov, ad esempio, ha rimproverato gli Stati Uniti perché “violano i diritti dei loro cittadini”. I giorni nordcoreani hanno scritto della “brutalità poliziesca” americana. L’Ayatollah iraniano Khomeini ha detto che “l’America ha cominciato il suo processo di autodistruzione”. La performace di Trump e degli Stati Uniti di fronte alla crisi ha spostato l’attenzione dagli errori commessi dalla Cina nella gestione del primo focolaio di Wuhan e nascosto le sue misure per schiacciare il dissenso a Hong Kong. Quando un funzionario americano ha citato il tema dei diritti umani su Twitter, la portavoce del ministero degli Esteri cinesi ha risposto con una sola frase: “I can’t breathe” – citando l’omicidio di George Floyd. 

Per quanto possa essere odioso, Trump non è la causa del declino americano – è il sintomo. Guardandosi allo specchio e vedendo solo il mito del loro eccezionalismo, gli americani rimangono ancora stranamente incapaci di accorgersi di cosa è diventato il loro Paese. Il Paese che un tempo definiva il libero scambio di informazioni la linfa vitale della democrazia oggi è 45esima nelle classifiche della libertà di stampa. In un paese che un tempo accoglieva masse di persone in fuga da tutto il mondo, oggi si parla di costruire un muro sul confine meridionale. Negando completamente importanza al benessere collettivo, le leggi degli Stati Uniti considerano come un diritto inalienabile dell’individuo la libertà di possedere armi da guerra, nonostante nell’ultimo decennio 346 studenti e insegnanti americani siano stati uccisi nelle loro scuole. 

Il culto americano dell’individuo nega non solo la comunità ma la società stessa. Nessuno deve più niente a nessuno. Tutti devono combattere per tutto: per l’educazione, per avere un tetto sulla testa, per il cibo, per le cure mediche. Ciò che ogni democrazia di successo considera diritti fondamentali – la copertura medica universale, l’accesso equo all’educazione pubblica, un sistema protezione sociale per i deboli e gli anziani – gli Stati Uniti li considerano segni di debolezza ed eresi socialiste.

Come può dunque il resto del mondo aspettarsi che gli Stati Uniti possano fungere da paese guida di fronte a minacce globali – che si tratti di cambiamento climatico o pandemia – quando il Paese stesso non ha più a cuore il benessere collettivo nemmeno della sua stessa comunità nazionale? Il patriottismo non sostituisce la compassione. Chi oggi affolla spiagge, bar e manifestazione politiche mettendo a rischio i suoi concittadini non sta esercitando la sua libertà individuale, sta mostrano la debolezza di chi non ha lo stoicismo di sopportare una pandemia e la forza di sconfiggerla. E a guidarli c’è Donald Trump, una grottesca caricatura di uomo forte, con il suo atteggiamento da bullo.

Negli ultimi mesi, su internet è girata molto una battuta secondo cui vivere in Canada oggi è come possedere un appartamento proprio sopra un laboratorio clandestino in cui si produce metanfetamina. Il Canada non è perfetto, ma ha gestito bene la crisi del COVID-19, specialmente dove vivo io, in British Columbia. Vancouver si trova solo a tre ore di auto da Seattle, uno dei primi focolai degli Stati Uniti. Metà della popolazione di Vancouver ha origini asiatiche e ogni giorno arrivano decine di voli dalla Cina e dal Sudest asiatico. A rigor di logica, ci si sarebbe dovuti aspettare un focolaio particolarmente consistente, ma il sistema sanitario ha retto molto bene. Per tutta la crisi, la media dei test effettuati in Canada è stata cinque volte superiore rispetto a quelli fatti negli Stati Uniti. Il Canada ha avuto circa la metà della mortalità e dei casi americani pro capite: per ogni persona morta nella British Columbia, in Massachusetts – uno stato che ha più o meno la stessa popolazione e che da solo ha avuto più casi di tutto il Canada – ne sono morte 44. 

Quando i miei amici americani mi chiedono una spiegazione per tutto ciò, io gli dico di riflettere su quando è stata l’ultima volta che hanno fatto la spesa nel supermercato di quartiere. Negli Stati Uniti c’è quasi sempre una differenza razziale, economica e culturale tra il consumatore e il cassiere che è difficile se non impossibile da superare. In Canada è diverso: l’interazione avviene tra membri della stessa comunità. La ragione è semplice: il cassiere non sarà ricco come te, ma sa che tu sai che riceve uno stipendio decente grazie ai sindacati. E sa che tu sai che i suoi figli e i tuoi molto probabilmente vanno nella stessa scuola pubblica. E sa che tu sai che se i suoi figli si ammalano ricevono lo stesso livello di cure mediche dei tuoi, nonché dei figli del primo ministro. Queste tre cose da sole sono i pilastri su cui si basa la socialdemocrazia canadese.

Quando gli hanno chiesto cosa pensasse della civiltà Occidentale, il Mahatma Gandhi ha risposto: “penso che sarebbe una bella idea”. Una frase del genere, al condizionale, può sembrare crudele ma riflette in modo accurato il modo in cui una qualsiasi moderna socialdemocrazia vede oggi gli Stati Uniti. Il Canada ha reagito bene durante la crisi per via del nostro contratto sociale, della fiducia che abbiamo l’uno nell’altro e nelle nostre istituzioni, in particolare il sistema sanitario, con ospedali che si prendono cura dei bisogni medici della collettività e non del singolo individuo, e che non rispondono a un investitore privato che vede i letti d’ospedale come delle proprietà da affittare. La misura della ricchezza di una nazione non sta in quanti soldi riescono ad accumulare pochi fortunati, ma nella forza dei legami sociali che collegano la sua popolazione. 

Tutto questo non ha niente a che vedere con l’ideologia politica e riguarda invece la qualità della vita. I finlandesi vivono più a lungo e hanno meno probabilità di morire di parto o durante l’infanzia degli statunitensi. I danesi guadagnano quanto gli americani lavorando il 20% in meno. Pagano in tasse 19 centesimi di più per ogni dollaro guadagnato, ma in cambio ricevono sanità gratuita, educazione gratuita fino all’università (compresa), e l’opportunità di prosperare in un’economia di libero mercato funzionante con meno povertà, meno senzatetto, meno criminalità e meno disuguaglianze. Il lavoratore medio è pagato di più, trattato meglio, ricompensato con l’assicurazione sulla vita, un piano pensione, la maternità e sei settimane di vacanze pagate l’anno. Tutti questi benefit ispirano i danesi a lavorare di più, con l’80% degli uomini e delle donne tra i 16 e i 64 anni che sono coinvolti nel mercato de lavoro, una percentuale ben più alta di quella degli Stati Uniti. 

I politici americani considerano il modello scandinavo come una specie di strisciante socialismo, una versione leggera del comunismo, qualcosa che non funzionerebbe mai negli Stati Uniti. In realtà le socialdemocrazie hanno successo precisamente perché rendono più dinamiche le economie capitaliste distribuendo i loro benefici su ogni gradino della scala sociale. Che la socialdemocrazia non prenderà mai piede negli Stati Uniti può essere vero, ma se lo fosse sarebbe solo una terribile conferma di quello che aveva in mente Oscar Wilde quando scriveva che gli Stati Uniti sono l’unico Paese che è passato dalla barbarie alla decadenza senza aver mai vissuto una fase di civiltà. 

Una prova di questa decadenza ormai in stadio terminale è la scelta che così tanti americani hanno fatto nel 2016 di dare priorità alle loro indignazioni personali e ai loro risentimenti rispetto al destino del Paese e del mondo, andando a eleggere un uomo le cui uniche credenziali per il ruolo di presidente erano la sua disponibilità a dar voce a quei risentimenti, a quella rabbia, e a dirigerla contro nemici reali o immaginari. È difficile pensare a cosa vorrà dire per il mondo se il prossimo novembre gli americani, sapendo ora tutto ciò che sanno, rieleggeranno quello stesso uomo. Ma anche se Trump venisse sonoramente sconfitto, non è per nulla chiaro come una nazione così profondamente polarizzata sarà in grado di trovare un modo per andare avanti. Nel bene e nel male, gli Stati Uniti hanno fatto il loro tempo.

Questo articolo è apparso originariamente su Rolling Stone US