Il caso di Saman Abbas non c'entra con l'islam | Rolling Stone Italia
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Il caso di Saman Abbas non c’entra con l’islam

La scomparsa della 18enne di origini pakistane sta venendo strumentalizzata dalla destra. Ma farla passare per una questione di religione vuol dire ignorare un problema ben più presente nella nostra società: quello della cultura patriarcale, della violenza sulle donne, dei femminicidi

Il caso di Saman Abbas non c’entra con l’islam

Aveva 18 anni, viveva da anni a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, e di lei da fine aprile non c’è traccia. Quello di Saman Abbas, giovane di origini pachistane che a dicembre aveva denunciato i familiari che la volevano dare in sposa in un matrimonio combinato, è ancora un caso aperto, ma tutti gli indizi per ora sembrano puntare verso una conclusione atroce: un femminicidio a sangue freddo, avvenuto con il beneplacito della famiglia della ragazza. Un delitto d’onore, come quelli che anche in Italia accettavamo con pene meno severe fino all’inizio degli anni Ottanta.

Secondo le ricostruzioni, basate pesantemente sui racconti del fratello 16enne e del fidanzato di Saman, su alcune telefonate e messaggi ottenuti dagli inquirenti e su delle immagini di videosorveglianza, la ragazza sarebbe tornata nella casa di famiglia a Novellara, forse per cercare di riavere i propri documenti, lasciando la struttura gestita dai servizi sociali nel bolognese dove era ospitata dopo essere sfuggita al matrimonio combinato con un cugino. Saman è nella sua cameretta e messaggia con il fidanzato dal cellulare rubato alla madre.

Gli scrive che da lì riesce a sentire la sua famiglia che parla di ucciderla: “l’ho sentito con le mie orecchie, giuro che stavano parlando di me”, gli scrive. “Se non mi senti per 48 ore avverti le forze dell’ordine”. Poi scompare. Ad occuparsi materialmente di uccidere Saman sarebbe stato lo zio Danish, che probabilmente la strangola prima di nasconderne il corpo. Il fratello gli domanda dov’è seppellita, perché vorrebbe abbracciarla un’ultima volta, ma lo zio si rifiuta di dirglielo. I genitori partono per il Pakistan poco dopo.

Il fratello prova a scappare in Francia, spaventato dalle intimidazioni dello zio, che gli dice che avrebbe ammazzato anche lui se avesse detto qualcosa alle forze dell’ordine. Ma viene fermato in un controllo vicino ad Imperia, e cede. “Mio zio Danish ha ucciso Saman. Ho paura di lui, perché mi ha detto che se io avessi rivelato ai carabinieri quanto successo, mi avrebbe ammazzato”, avrebbe raccontato agli inquirenti secondo una ricostruzione del Corriere della Sera. “Ho pensato anche di ucciderlo mentre dormiva, visto ciò che ha fatto. Ma poi ho pensato che sarei finito in prigione. Ed era meglio che intervenissero i carabinieri”.

Mentre le indagini si chiudono sui campi vicini alla casa degli Abbas, dove potrebbe essere stata sepolta Saman, il giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi afferma che la ragazza sarebbe stata uccisa “per punirla dall’allontanamento dai precetti dell’islam e per la ribellione alla volontà familiare, nonché per le continue fughe di casa”. Sul caso sono balzati presto diversi esponenti politici e testate di destra, secondo cui la morte di Saman andrebbe letta in luce del fondamentalismo islamico e dell’incapacità degli immigrati di rispettare le leggi italiane. 

Ignorando utilmente non soltanto che anche in Pakistan sono illegali gli omicidi d’onore e i matrimoni forzati – sebbene il governo faccia fatica a far rispettare la legge nelle comunità più patriarcali, dove sistemi giuridici paralleli ed illegali hanno spesso l’ultima parola – ma anche la decisione inedita, da parte del presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, di emettere una fatwa contro i matrimoni combinati. Una decisione volta a sottolineare una “cultura del rispetto, della tutela e della sacralità della vita delle persone” da parte della schiacciante maggioranza della comunità musulmana in Italia, che conta 1,7 milioni di credenti.

“Dovremmo affrontare la vicenda e discuterne principalmente come violenza sulle donne, come una terribile violazione dei diritti umani”, ha risposto Marwa Mahmoud, attivista femminista musulmana e Consigliera comunale del Comune di Reggio Emilia.  “Parlare di questo crimine associandolo unicamente all’origine, alla nazionalità e alla fede della famiglia sarebbe un gravissimo errore. Una semplificazione che finirebbe per etnicizzare un reato che è quello dei matrimoni forzati”.